Daniel Casarin – Imprenditore ed analista indipendente, si dedica al mondo della comunicazione, del marketing, del business design e della trasformazione digitale.
Francesco Donato Perillo è saggista, formatore e consulente manageriale. Docente di Persone, Macchine e Organizzazione nella trasformazione digitale, all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. È inoltre editorialista del Corriere del Mezzogiorno e ha curato la rubrica “Impresa Imperfetta” sulla rivista Persone & Conoscenze della casa editrice Este.
Con lui parleremo oggi di “Algocrazia”, il suo libro edito da Guerini Next nel 2024.
Lo ha intervistato per noi Daniel Casarin , CEO di Adv Media Lab. Modera l’intervista Grazia Sigismondo , Social media e community marketing consultant.
Grazia Sigismondo: Buongiorno a tutti. Sono Grazia Sigismondo, Social Media e Community Marketing Consultant di Adv Media Lab. Con me oggi ci sono Francesco Donato Perillo, saggista, formatore e consulente manageriale, nonché docente del corso “Persone, macchine e organizzazione nella trasformazione digitale” all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Inoltre, a condurre l’intervista, c’è Daniel, CEO di Adv Media Lab.
Ringrazio Francesco per questa chiacchierata insieme e lascio la parola a Daniel per le prime domande.
Daniel Casarin: Grazie, Francesco per essere qui. Direi di iniziare subito con un approfondimento su un’edizione molto interessante, Algocrazia , pubblicata da Guerini Next: Intelligenza artificiale e la fine del management?. Francesco, iniziamo subito… Parliamo di Algocrazia. Cosa intendi con questo termine? Qual è il significato che hai voluto attribuire al titolo del tuo libro?
Francesco Perillo: Algocrazia è un neologismo formato da due parole: algoritmo e potere (crazia). È il potere dell’algoritmo. Siamo semplicemente agli inizi di questa epoca di sconvolgimenti, poiché l’algoritmo è in grado di invadere ogni sfera della nostra vita, inclusa quella civile. Attraverso l’intelligenza artificiale e i suoi sviluppi, che sono continui e inarrestabili, come umanità stiamo trasformando il mondo. Potremmo gestire ospedali, traffico automobilistico, cause nei tribunali, banche e, soprattutto, il mondo del lavoro, che è la sfera di mio interesse.
Questo perché provengo dalla vita aziendale, avendo ricoperto il ruolo di responsabile delle risorse umane per oltre 30 anni nel gruppo Leonardo. Ho quindi assistito in prima persona alla transizione verso la digitalizzazione dell’azienda , preceduta dall’automatizzazione dei processi.
L’algocrazia è un potere tale da poter condizionare tutti i processi della vita umana, fino al punto di essere diretti e guidati dagli algoritmi. Ed è qui che si pone il grande problema, centrale nel mio libro: quello della responsabilità rispetto a un funzionamento affidato o delegato alle macchine intelligenti.
Daniel Casarin: Assolutamente chiaro. Partendo proprio dal tema degli algoritmi, nel libro si introduce anche il concetto di androritmi. Vorrei portare il discorso verso una tendenza, o meglio, verso l’ambito dei ruoli legati alla conoscenza: i knowledge worker. Come accennato anche nel libro, questi professionisti si trovano spesso al centro di quella che potrebbe essere definita una “tempesta perfetta”, dove l’ambito delle loro attività viene sempre più frequentemente impattato dall’uso degli algoritmi.
Ecco, per i knowledge worker, qual è il potenziale punto di incontro? Sappiamo bene che l’intelligenza artificiale avrà un certo tipo di impatto su alcune professioni, mentre su altre influirà in modo diverso, in relazione al tipo di attività—che sia pratica, strategica o visionaria. Considerando che molti dei nostri ascoltatori appartengono proprio a questa categoria di knowledge worker, quale potrebbe essere il punto di equilibrio tra algoritmi e androritmi?
Francesco Perillo : Bene, precisiamo innanzitutto che, accanto ad algocrazia, l’altro neologismo è androritmo. Inizialmente avevo pensato di intitolare il libro proprio Androritmo, ma l’editor, molto competente, di Guerini mi ha fatto notare che il termine era poco conosciuto e che, da un punto di vista di marketing, avrebbe potuto penalizzare il libro. Mi ha detto: “Guarda che con questo titolo il libro non lo comprerà nessuno”.
Androritmo rappresenta il “ritmo delle cose umane” . La desinenza “ritmo”, che troviamo in molte parole del greco antico, indica la misura e la qualità delle capacità umane. La misura dell’umano, dell’andros, è definita da tutto ciò che le macchine non hanno e non possono avere: il bios.
Il bios è ciò che elabora e genera creatività, immaginazione, intuito, la capacità di connettere inconscio e conscio. Queste caratteristiche, almeno al momento, non possono essere replicate dalle macchine intelligenti. In questo senso, l’androritmo si contrappone all’algoritmo.
Il punto cruciale, come giustamente osservavi, è trovare un modo per integrare le capacità androritmiche, ovvero umane, con quelle delle macchine, ossia il potere calcolante derivante dall’enorme mole di dati che solo le macchine possono gestire e che noi umani non possiamo eguagliare. Il problema emerge quando l’algoritmo prevale sull’androritmo, trasformando un potenziale punto di incontro in uno di scontro.
Diventa un punto di incontro quando riusciamo a integrare queste due capacità. È qui che emerge il cambiamento nel modo di lavorare, nell’organizzazione del lavoro e nel destino stesso di ciò che, dai tempi della Terza Rivoluzione Industriale, abbiamo chiamato knowledge worker: il “camice bianco”, colui che lavora con l’intelletto e non solo con le mani.
Ho coniato anche un altro neologismo: il digital worker. Il knowledge worker, che fino a oggi ha avuto il dominio della conoscenza all’interno di un’organizzazione, era in grado, grazie alle sue competenze, di assolvere pienamente obiettivi e compiti e di gestire i processi. Ora, con processi sempre più affidati alle macchine, cambia il rapporto del knowledge worker con il lavoro. Diventa un digital worker perché deve adattarsi alla logica digitale e riuscire a dialogare con le macchine. Questo significa che deve formarsi per mantenere il passo con la macchina e interpretare correttamente gli output.
Se non riuscisse a fare questo, ovvero a ricoprire un ruolo dialogante, di pari dignità con le macchine intelligenti, rischierebbe di diventare un semplice burattino, guidato dal funzionamento della macchina stessa. Il digital worker affronta quindi una serie di sfide, che sono strettamente legate all’organizzazione del lavoro che manager e imprenditori decidono di adottare per le proprie aziende.
E qui si apre un discorso più ampio, legato alla responsabilità di questi ruoli nel recuperare la dimensione umana. L’originalità della tesi che cerco di portare avanti sta nel fatto che tutto questo non viene fatto in nome di un neo-umanesimo—non possiamo pensare di introdurre valori di tipo morale nella gestione del business—ma lo facciamo nell’interesse del business stesso.
In altre parole, se vogliamo ottenere un risultato competitivo rispetto alla concorrenza, dobbiamo integrare gli esseri umani con le macchine . Non possiamo subordinare gli uni alle altre né delegare completamente alle macchine il funzionamento dell’azienda. Questa è, in sintesi, la tesi di fondo. Ma, nel corso della nostra conversazione, potremo approfondire ulteriormente questo tema.
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Daniel Casarin: Perfetto. Non posso che concordare con la tua tesi.
Francesco Perillo: Ci troviamo di fronte a questo rischio, Daniel. Perché tutti parlano e la maggior parte poi degli articoli, della letteratura, delle testate dei giornali, paventano il rischio della sostituzione del lavoro umano da parte delle macchine intelligenti. D’accordo, è un rischio. Io vorrei però paventare il rischio della sostituzione della responsabilità umana che mi sembra un rischio molto più serio.
Daniel Casarin: Sì, sì, soprattutto adesso. Chiaro. Infatti, approfondiremo questo punto mano a mano. Passo ora a un altro argomento. Leggo dall’edizione: “ Per apprendere, crescere e mantenere il passo con il futuro nell’azienda 4.0, sarà necessario un deciso investimento in identità e non solo in tecnologie”.
Francesco, spiegaci meglio cosa intendi con questo concetto di identità e come nasce questa urgenza.
Francesco Perillo: Sì, credo che questa riflessione sia molto opportuna. Hai toccato un punto centrale rispetto a quanto stavo sostenendo prima. La domanda è: può esistere un’impresa senza anima? Ed è qui che entra in gioco il tema dell’identità.
Nel momento in cui digitalizziamo completamente l’impresa e affidiamo i processi all’intelligenza artificiale—sapendo che l’intelligenza artificiale può migliorare continuamente i processi grazie al machine learning—assistiamo a un miglioramento continuo affidato alle macchine. Tuttavia, ogni azienda rischia di diventare abbastanza omologata rispetto alle altre, perché, se molte imprese sono in grado di investire e digitalizzarsi, si trovano tutte più o meno nelle stesse condizioni.
Che cosa, allora, fa davvero la differenza e consente a un’impresa di vincere sul mercato? Io credo ancora nel brand. Il brand è strettamente legato all’identità dell’impresa, perché quando un consumatore acquista un prodotto, sta acquistando anche un pezzo dell’identità di quell’impresa: il suo modo di essere, il suo sistema di valori, la sua visione.
L’identità, quindi, diventa un fattore essenziale per il successo aziendale. Vogliamo davvero perdere questa identità? È questa la domanda che dobbiamo porre ai venditori, ai manager e agli executive. Perdere l’identità significa omologarsi alle altre imprese, privarsi di quella marcia in più che permette di competere efficacemente in un mercato globale, altamente competitivo e caratterizzato da continue turbolenze.
L’identità è il centro di gravità di un’impresa ed è qualcosa che si trasmette verso l’esterno. Per preservare questa identità, abbiamo bisogno delle persone che lavorano all’interno dell’azienda, delle loro individualità e della loro identità. Se queste vengono schiacciate dalle macchine, subordinate o omologate ad esse, rischiamo di perdere la motivazione nel lavoro. Questo porta a un’incapacità di essere distintivi, di superare le difficoltà con passione, di essere creativi e innovativi.
L’innovazione rimarrà sempre il fattore vincente e competitivo nel terzo millennio. In un mondo in continua evoluzione, essa rappresenta un elemento decisivo. Tuttavia, per essere efficace, l’innovazione ha bisogno di un’anima, cioè dell’identità dell’impresa. Quest’ultima si costruisce anche attraverso la capacità di attrarre e valorizzare le persone.
Qui entra in gioco un altro aspetto fondamentale: le conoscenze. È evidente la necessità di promuovere un’alfabetizzazione digitale all’interno delle imprese, un processo che dovrebbe iniziare già nelle scuole e nelle università. È essenziale arrivare preparati per comprendere il mondo digitale, il suo funzionamento e le sue logiche. Non è necessario diventare ingegneri informatici, ma bisogna acquisire la capacità di capire le dinamiche del digitale.
Tuttavia, non basta una semplice alfabetizzazione. Le conoscenze non si limitano a quelle esplicite—quelle che troviamo nei manuali e che ci spiegano come funziona una macchina o cosa succede in determinate circostanze. Esistono anche conoscenze tacite, quelle che derivano dall’esperienza e che possono consolidarsi solo attraverso lo scambio e la relazione.
Questa relazionalità deve essere promossa e guidata dai manager, sia come relazionalità tra esseri umani all’interno dell’organizzazione—essenziale per condividere conoscenze ed esperienze—sia come relazionalità tra esseri umani e macchine. Oggi, infatti, le macchine interagiscono con gli umani attraverso il linguaggio , rendendo questa relazione un fattore essenziale per accrescere le competenze e le capacità dell’impresa.
In altre parole, un’azienda vincente non può limitarsi a investire nel digitale: deve affrontare una vera trasformazione. Più che una trasformazione digitale, serve una trasformazione culturale e organizzativa, che valorizzi le capacità relazionali delle persone per costruire e rafforzare il brand, consolidare l’identità aziendale e sviluppare le competenze interne. Questo, per me, rappresenta un pilastro fondamentale.
Vedo due pilastri essenziali per il successo di un’impresa. Il primo è la responsabilità, che deve rimanere in capo ai manager e non essere delegata alle macchine. Le macchine non devono diventare i nuovi dirigenti che comandano e controllano, sostituendo la vecchia logica fordista con una nuova forma di automatismo decisionale. Il secondo pilastro è la relazionalità, un valore da preservare non per motivi etici, ma per ragioni strettamente legate al business.
Attraverso la relazionalità si trasmettono le conoscenze tacite, quelle che nascono dall’esperienza e che le macchine, per quanto avanzate, non possono offrire. Queste conoscenze rappresentano quel quid che rende un’azienda davvero distintiva e competitiva sul mercato.
Daniel Casarin: Benissimo. Voglio collegarmi a un concetto emerso qua e là e riprendere ciò che nel libro hai citato come un termine che considero più che sacro: areté . O meglio, la capacità di essere abitualmente eccellenti attraverso la virtù , che si riconosce solo nell’azione e non nelle parole.
Perché parlare oggi di areté è così importante da questo punto di vista?
Francesco Perillo: Intanto, parliamo di areté, non genericamente di virtù o di valori. L’areté, per gli antichi Greci—soprattutto nei poemi omerici e successivamente in Socrate—rappresenta la capacità di essere eccellenti nell’azione , non nelle parole, ma in ciò che si fa. Achille incarna l’areté perché è il più veloce: la sua virtù si manifesta nell’azione. Ettore è virtuoso perché eccelle come allevatore di cavalli.
Allo stesso modo, all’interno delle organizzazioni, l’areté si applica non solo al mondo delle imprese industriali, ma anche a quello dei servizi, della pubblica amministrazione, delle scuole, degli ospedali,insomma, a tutta l’umanità attiva. La virtù si esprime in ciò che si fa e nell’essere abitualmente eccellenti, dove “eccellente” deriva da ex-celare, ovvero emergere, tirare fuori il proprio potenziale.
Non si tratta di restare passivi, con le braccia incrociate, in attesa di un input da parte di un capo—sia esso un superiore o una macchina—ma di sviluppare la capacità di interloquire, proporre e agire in modo proattivo . L’areté si manifesta proprio in questa attitudine all’iniziativa organizzativa e alla partecipazione attiva, indipendentemente dal ruolo ricoperto.
E poi c’è la virtù manageriale, in cui credo profondamente, perché si fonda sull’esempio. È quella capacità di farsi carico dell’intero sistema, senza limitarsi a guardare solo il proprio interesse o il risultato della propria unità organizzativa, ma considerando il miglioramento generale dell’azienda.
È la capacità di prendersi cura di tutti i fattori che contribuiscono al risultato. E il primo di questi fattori, la vera fonte della generazione del valore, non è la macchina, ma la persona che lavora accanto alla macchina e interagisce con essa.
Daniel Casarin : Partendo dalla tua decennale esperienza nelle risorse umane e come docente, in particolare sull’organizzazione della trasformazione digitale e del lavoro, trovo che il tema dell’organizzazione del lavoro sia uno dei concetti che, a mio parere, ricorre implicitamente più volte nel tuo libro.
Parliamo di organizzazione del lavoro come strumento per far collaborare uomini e macchine all’interno delle imprese. Al di là di ogni polarizzazione che spesso riscontro nelle aziende, pensi che questa collaborazione sia realmente possibile? E in che modo può essere concretamente realizzata?
Quindi, passando dal tema della responsabilità manageriale, come sarà possibile costruire una collaborazione efficace tra esseri umani e macchine?
Francesco Perillo: In tutta sincerità, non lo so. Non esistono ricette o manuali che possano spiegare con certezza come affrontare questa sfida. Questa impostazione parte dalla responsabilità manageriale, cioè dalla consapevolezza che delegare le decisioni agli algoritmi può sembrare comodo, ma non sempre è la soluzione giusta.
Prendiamo, ad esempio, una banca che decide di affidare a un algoritmo la concessione di un mutuo. Può sembrare una scelta neutrale e obiettiva, ma ignora l’elemento umano: i bisogni, la personalità e la storia della persona che richiede quel mutuo. Diventa un comodo alibi dire: “Se il mutuo non ti è stato concesso, non è colpa mia, è colpa della macchina.”
In ambito sanitario, il discorso è ancora più delicato. L’intelligenza artificiale offre soluzioni straordinarie : dalla medicina a distanza alle operazioni chirurgiche remote. Può permettere a un chirurgo in Europa di operare un paziente in un villaggio remoto in Africa o di gestire un parto a distanza. Questi progressi sono estremamente positivi, ma si presentano anche situazioni eticamente complesse.
Ad esempio, potrebbe accadere che l’intelligenza artificiale decida chi far accedere a un reparto di rianimazione e chi no, in presenza di posti limitati. Potrebbe stabilire chi abbandonare al proprio destino e chi tentare di salvare, basandosi su parametri che spesso non sono trasparenti o comprensibili. E qui sta il punto: la mancanza di trasparenza. Le normative stanno cercando di imporre maggiore chiarezza e controllo, ma è un percorso ancora in fase di sviluppo.
Mi sembra difficile che una semplice norma possa davvero disciplinare e regolamentare questi processi se non c’è, a monte, una reale volontà di farlo. È praticamente impossibile controllare ogni cosa che accade. Possiamo avere norme che stabiliscono che gli algoritmi debbano essere trasparenti, come nel caso in cui una macchina decida chi può accedere a un reparto di rianimazione. La norma potrebbe prevedere che vengano esplicitati i parametri sulla base dei quali il paziente viene accettato o escluso.
Tuttavia, se non siamo in grado di verificare che tutto ciò venga effettivamente rispettato, la decisione resta nelle mani del medico o del personale umano presente. E qui sorge il rischio: quel presidio umano potrebbe trovare comodo usare l’intelligenza artificiale come alibi per scaricare la propria responsabilità.
Quando spostiamo il discorso nelle aziende, il problema diventa altrettanto critico. Chi prende decisioni fondamentali come licenziare o assumere, o chiudere uno stabilimento? Ed è qui che il sottotitolo del libro, “Se l’intelligenza artificiale è la fine del management? “, diventa centrale. La delega delle decisioni all’intelligenza artificiale è una tentazione molto forte, ma pericolosa.
Possiamo comprendere l’utilità di affidare alle macchine un potere diagnostico, ma il potere decisionale deve rimanere saldamente umano. Questo limite non può essere valicato. Ed è proprio qui che Areté, la capacità di essere eccellenti nell’azione, torna ad avere un ruolo fondamentale.
Quindi, la virtù del singolo sta nel dire: “Bene, indipendentemente dalle normative, dalle leggi, o da ciò che oggi chiamiamo algoretica —che si tenta di integrare nell’intelligenza artificiale—la responsabilità umana resta il fattore decisivo .” Questo vale in tutti i campi.
Ho citato esempi nel mondo sanitario, bancario e aziendale. Le macchine possono offrire vantaggi straordinari, ma se vengono utilizzate senza una connessione alla rete o senza essere sintonizzate con l’androritmo, rischiano di diventare deleterie. In questi casi, si trasformano in strumenti disumani, capaci di compromettere l’intera umanità.
L’intelligenza artificiale, per sua natura, opera su scala massiva e, se lasciata incontrollata, può affidare il destino dell’umanità al mero funzionamento degli algoritmi. Questo è un rischio estremamente serio, che richiede una riflessione profonda e una gestione responsabile.
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Daniel Casarin: Non posso che condividere da imprenditore manager.
Francesco Perillo : Ed ecco il titolo Algocrazia, perché l’algocrazia rappresenterà proprio questo: un mondo gestito da una capacità calcolante infinitamente superiore alla somma di tutti gli esseri pensanti, di tutti gli esseri umani, ma caratterizzato dalla completa perdita della responsabilità.
Sì, infatti, il tema della delega è estremamente interessante.
Per esempio, immaginiamo una città gestita dagli algoritmi. Perfetto. Abbiamo la gestione dell’energia elettrica, dell’approvvigionamento idrico, delle fonti di approvvigionamento alimentare, del traffico urbano e dei piani edilizi, tutto affidato non al sindaco ma all’intelligenza artificiale.
Benissimo. Ma dove si colloca la responsabilità? A chi è attribuita?
Trasporre questo concetto nel mondo aziendale diventa drammatico, perché significherebbe trasformare l’azienda in una macchina. Vorrei qui riprendere un concetto del ’900, un secolo che ci ha insegnato molto, in particolare con l’idea di learning organization.
A un certo punto, si è compreso che l’azienda non è una macchina che funziona come una serie di ingranaggi, alla maniera descritta in Tempi moderni, ma è un essere vivente. Un’entità capace di trasformarsi continuamente , migliorare costantemente e vivere. È quindi un organismo vitale, legato al bios e non all’algoritmo.
Dobbiamo salvaguardare questa radice biologica dell’impresa , un aspetto spesso trascurato. Nella mia esperienza, avendo lavorato a stretto contatto con ingegneri, soprattutto elettronici e informatici, in Leonardo, ho osservato che molti di loro escono dalle università con una mentalità fordista, plasmata dal management scientifico.
Non considerano affatto l’azienda come un essere vivente, ma la percepiscono come una grande macchina progettata esclusivamente per produrre oggetti. Questa visione riduttiva è ciò che dobbiamo contrastare per preservare la vitalità e l’identità delle organizzazioni.
Daniel Casarin: Grazia si ricorderà che a termine dei workshop che faccio io spesso chiudo parlando dell’organizzazione come una cellula.
Francesco Perillo : Ecco, l’origine biologica è esattamente quel punto. Peter Senge ci ha insegnato molte cose. Anche lui, pur essendo un ingegnere aeronautico, con La quinta disciplina ha posto le basi per un modello che, a mio avviso, resta un pilastro fondamentale, nonostante la digitalizzazione.
Daniel Casarin: Sì, sì, anzi, da un lato dovrebbe essere approfondito ulteriormente. Ok, torniamo sull’argomento. Parliamo dei disastri, o comunque dei vantaggi, che l’IA potrebbe portare nell’ambito aziendale, in particolare nel ruolo delle risorse umane, un settore che conosci molto bene.
Come state affrontando questa trasformazione? Come, a tuo parere, l’IA sta facendo evolvere il ruolo delle risorse umane? Senza entrare in una visione troppo a lungo termine, che sarebbe piuttosto complessa, come vedi la situazione attuale?
Francesco Perillo: Oggi mi occupo di formazione manageriale, il che mi dà la possibilità di entrare in contatto con tantissime imprese: grandi multinazionali, aziende a partecipazione pubblica, aziende pubbliche e PMI. Questo mi ha permesso di avere una visione molto ampia. Purtroppo, su questo tema siamo ancora molto indietro. Non lo si sta affrontando adeguatamente, e manca una consapevolezza diffusa sui cambiamenti imminenti e sui rischi che si corrono se i driver della trasformazione digitale non vengono in qualche modo presidiati.
La funzione che dovrebbe presidiare questi driver è proprio quella delle risorse umane. Dovrebbe essere in grado di affermare con chiarezza che non possiamo lasciare questi elementi critici al caso. È necessario avere un centro di gravità all’interno dell’azienda, un collante che tenga insieme tutti i processi, continuando a investire nella cultura d’impresa per proteggere l’identità aziendale.
Il paladino della cultura e dell’identità aziendale dovrebbe essere il direttore del personale. Ma quanti direttori del personale affrontano il loro ruolo in questo modo? A me sembrano davvero molto pochi. Di conseguenza, c’è un investimento in formazione che è urgente fare.
Le società che si occupano di formazione, come la vostra, dovrebbero convincere i propri interlocutori dell’importanza di organizzare corsi per i responsabili delle risorse umane su questi temi cruciali.
Ho iniziato con l’università, che è stato il mio ambiente di approdo dopo l’esperienza aziendale. Ho insegnato per 16 anni gestione delle risorse umane, ma a un certo punto mi sono detto: basta. Erano ormai 20 anni che ripetevo gli stessi concetti, mentre ci trovavamo alle soglie di un cambiamento epocale.
Il paradigma di funzionamento del mondo sta cambiando completamente. Non si tratta solo di aggiornare un software: è il sistema operativo del mondo stesso che si sta trasformando, con l’infosfera, la digitalizzazione e l’intelligenza artificiale.
Ho capito che dovevo insegnare gestione delle risorse umane nella trasformazione digitale, abbandonando i parametri e gli strumenti tradizionali del ’900, come i sistemi di valutazione, retribuzione e formazione. Dobbiamo iniziare a sviluppare strumenti che non lascino i driver della trasformazione digitale al loro destino, ma che consentano alla funzione risorse umane di pilotare questo cambiamento.
Ripeto: trasformazione digitale . Digitale implica investimenti, che possiamo lasciare ai tecnici, ma la parola trasformazione deve essere presidiata da noi, che ci occupiamo di risorse umane. Come possiamo guidare questa trasformazione? La leva principale rimane la formazione, perché la tecnologia non la possiamo certo fermare.
La tecnologia, come sostiene molto chiaramente Galimberti—che a volte appare quasi tecnofobo—è uno strumento potente. Può costruire, ma anche distruggere il mondo, come una bomba atomica. Sta a noi governare con consapevolezza.
Non possiamo fermare la tecnologia, perché il suo fine è lo sviluppo di se stessa. Non è pensabile imporre dei limiti al progresso tecnologico, ma possiamo formarci. Mi piace giocare su queste due parole: fermare la tecnologia, no; formare noi stessi, sì. Possiamo e dobbiamo farlo.
La formazione che propongo in questo libro è, in parte, una provocazione: l’ho intitolata La formazione come oltraggio . Il termine “oltraggio” può sembrare provocatorio, poiché ha una connotazione negativa, ma qui intende mettere in discussione gli schemi tradizionali. Significa andare oltre.
Andare oltre dove? Oltre la propria soglia abituale, il proprio centro di benessere, la propria comfort zone. Il compito della formazione, la sua missione, è portare le persone fuori dalla loro comfort zone, aiutandole a superare la resistenza al cambiamento . Questa resistenza è spesso la barriera più grande da affrontare. L’obiettivo è abbracciare il cambiamento per acquisire una comfort zone più ampia di quella che si lascia, non per perderla. Perciò, è necessario andare oltre.
Ma per fare questo, possiamo davvero pensare a una formazione digitalizzata, basata su app da 10 minuti al giorno, come se fossero esercizi in palestra? Io credo proprio di no. La parola “apprendere” contiene sì la radice “app”, ma non possiamo ridurla a semplici pillole digitali. L’apprendimento è qualcosa di più profondo, che richiede riflessione, coinvolgimento e tempo.
Non so tu, Daniel, ma io vedo sempre più spesso una tendenza a ridurre la formazione a pillole di pochi minuti, a contenuti molto pratici, da fruire sul telefono, magari nei ritagli di tempo. Ma la formazione deve andare in profondità, altrimenti non funziona.
E cosa dobbiamo ottenere? Partendo dai manager, che hanno il compito di guidare altre persone e assumersi responsabilità, dobbiamo portarli verso un tipo di eccellenza che consenta loro di gestire al meglio il rapporto tra uomini e macchine. Devono essere in grado di riflettere, mettersi in discussione e trovare nuove modalità e logiche per valorizzare il contributo delle persone all’interno di un’azienda digitalizzata, evitando di affidare tutto alle macchine.
Occorre formarsi. Non è solo una questione di alfabetizzazione digitale, ma di formazione che penetri in profondità. Una formazione che porti a galla angosce, difficoltà e maschere; che smascheri stili di comando e controllo ancora molto radicati nel mindset dei nostri manager.
Questo, secondo me, è il tipo di formazione di cui abbiamo bisogno. Una formazione più umanistica e meno tecnologica per chi ha responsabilità gestionali. Perché è solo attraverso una profonda consapevolezza umana che possiamo costruire un rapporto equilibrato tra persone e tecnologia.
Daniel Casarin: Non posso che condividere tutto.
Francesco Perillo: Siamo molto allineati, quindi questo non fa funzionare bene il nostro dialogo. Siamo troppo allineati.
Daniel Casarin: Infatti volevo controbattere in qualche modo, ma non ci riesco. Sto cercando dei punti, ma non riesco.
Francesco Perillo: Noi dobbiamo controbattere quando incontriamo i nostri interlocutori. Io lo faccio nelle aule sia di formazione sia nelle aule universitarie. Cioè mettere in discussione gli schemi tradizionali. Bisogna fare questo.
Daniele Casarin : Assolutamente d’accordo. Inoltre, torno sul tema delle modalità di formazione da 10 minuti. Se da un lato possono offrire un suggerimento pratico o una soluzione immediata per alcune aree specifiche, dall’altro si perde tutto ciò che riguarda una comprensione profonda.
Questa modalità non consente di sviluppare un ragionamento più ampio, quello che effettivamente genera un cambiamento interiore e, di conseguenza, un potenziale cambiamento esteriore. È proprio questa profondità che permette di trasformare non solo il singolo individuo, ma anche il contesto in cui opera.
Francesco Perillo : Daniel, questo lo dico perché sono stato dall’altro lato. Sono stato direttore della formazione e dello sviluppo in una società chiamata Alenia Marconi Systems: 50% Finmeccanica, 50% British Aerospace, con 7.000 dipendenti. Ho avuto anch’io la tentazione della formazione a pillole.
Perché? Perché, avendo un budget, potevo dimostrare un risultato. Il risultato era raggiungere molte più persone spendendo il meno possibile. Questo obiettivo era facilmente realizzabile attraverso le app o l’e-learning. Tuttavia, anche in questo caso, entra in gioco la responsabilità.
Mi dicevo: “Faccio questo, dimostro che sono stato bravo, perché ho erogato più formazione con meno risorse.” Ed era esattamente ciò che voleva il mio capo: più formazione a costi ridotti. Ma la domanda cruciale è: ho davvero fatto formazione?
Ed è qui che entra in gioco l’etica personale e professionale. Mi sono reso conto che, per essere fedele a questa etica, la risposta era no. Non ho ceduto alla tentazione, sapendo che avrei potuto ottenere una carriera più brillante, ma a scapito della vera formazione. Ho scelto di non farlo e, forse, per questo non ho fatto una grande carriera. Ma ho agito secondo coscienza.
Daniel Casarin: È vero, questa tipologia di formazione può andare bene, ripeto, solo per delle cose molto pratiche.
Francesco Perillo: Sì, per l’inglese va bene, per fare le lingue o anche per conoscere qualche linguaggio informatico, insomma, per l’addestramento.
Daniel Casarin : Esattamente, soprattutto per quanto riguarda l’addestramento. In conclusione, c’è anche un tema importante da affrontare sul ruolo delle associazioni di categoria, che dovrebbero avere un incarico chiave nell’abilitare e promuovere la formazione e altre iniziative correlate.
Da qui si apre poi il discorso sul ruolo politico e governativo, che rimane centrale in questa dinamica.
Francesco Perillo: Si e stanno perdendo sempre di più il ruolo perché c’è la disintermediazione dovuta alla rete. Per cui le persone vanno direttamente in rete per trovare le risposte. Io lo vedo con i ragazzi di oggi, chiedono a ChatGPT : “Cosa devo fare se”? Non è che si rivolgono a un’associazione per essere tutelati.
C’è una trasformazione in atto molto impegnativa.
Daniel Casarin : In conclusione, per chiudere questa chiacchierata, Francesco, vorrei chiederti un’ultima cosa riguardo alle PMI, che rappresentano una parte importante del nostro tessuto imprenditoriale, specialmente nel settore manifatturiero.
Dal tuo punto di vista, quale potrebbe essere il ruolo dell’IA in questo contesto? Parliamo di una prospettiva imprenditoriale, in cui spesso l’imprenditore o i responsabili si trovano costantemente alle prese con problemi quotidiani legati alla produttività, alle consegne e alle continue corse contro il tempo. Come vedi l’integrazione dell’IA in questo scenario?
Francesco Perillo : Sì, questo è un tema decisivo, perché il nostro tessuto industriale, come dicevi, è costituito per il 90% da PMI. Ora, ci sono imprenditori più evoluti e altri meno evoluti, ma a tutti dobbiamo dire una cosa: l’investimento in digitalizzazione è un investimento costoso.
Nonostante gli incentivi pubblici, i finanziamenti e i contributi a fondo perduto, questi stanno progressivamente diminuendo, poiché il nostro Paese, come sappiamo, affronta un problema di debito pubblico significativo. L’aiuto e il supporto alle piccole imprese, in termini di incentivi, potrebbe quindi essere limitato, ma resta fondamentale che vengano mantenuti.
Bisogna essere molto realistici e comprendere, a mio avviso, due aspetti fondamentali. Primo: senza digitalizzazione non c’è futuro. È necessario iniziare a investire in digitalizzazione parallelamente a un miglioramento delle competenze delle persone. Se i tuoi collaboratori hanno sempre lavorato in modo esclusivamente esecutivo e passivo, non saranno in grado di interagire con macchine intelligenti. Quindi, è indispensabile investire anche sulle persone.
Secondo: non è necessario digitalizzare tutto, ma piuttosto ciò che è davvero utile. Bisogna applicare una matrice di priorità e urgenze, non solo per la gestione del tempo, ma per guidare la trasformazione digitale in modo strategico e mirato.
Visto che gli investimenti richiesti sono ingenti e non puoi permetterti la capacità di spesa di una grande azienda o di una multinazionale, è fondamentale concentrarsi su ciò che è davvero prioritario. Ad esempio, una delle priorità potrebbe essere la gestione del magazzino. I magazzini automatizzati abbattono enormemente i costi, riducendo le giacenze e il capitale circolante. Questo garantisce un ritorno economico facilmente calcolabile, quindi potresti iniziare digitalizzando proprio quest’area. Tuttavia, ciò richiede inevitabilmente un cambiamento nel modo di lavorare dei tuoi magazzinieri.
Un’altra priorità potrebbe essere la digitalizzazione di un processo di produzione, combinando automazione e controllo digitale per ottimizzare il flusso produttivo. Ma non è necessario digitalizzare interamente la tua impresa, soprattutto se non hai la forza economica per farlo.
Mantieni la tua identità, il tuo brand e la tua rete relazionale esterna di fornitori. Inizia la digitalizzazione in modo graduale e strategico, concentrandoti su ciò che davvero conta. Questa, almeno, è l’idea che mi sono fatto.
Daniel Casarin : Perfetto. Francesco, ti ringrazio moltissimo per il tempo che ci hai dedicato. Direi che potremmo continuare questa discussione ancora per ore. Grazie davvero.
Consiglio assolutamente la lettura di Algocrazia , un’edizione molto agile, con solo 140 pagine, ma ricca di spunti. Inoltre, per chi volesse approfondire ulteriormente, il libro offre una bibliografia essenziale e varie fonti utili.
Grazie ancora per questa chiacchierata e per l’approfondimento. Speriamo di rincontrarci presto!
Francesco Perillo: Davvero. Grazie molto Daniel, grazie. A presto.
Daniel Casarin, imprenditore ed analista indipendente, si dedica al mondo della comunicazione, del marketing, del business design e della trasformazione digitale. Con oltre 20 anni di esperienza, esplora l’impatto delle tecnologie emergenti in ambito economico e organizzativo. Attraverso Adv Media Lab e altre iniziative imprenditoriali, collega la sua expertise multidisciplinare al mondo dell’impresa.