Vi è una differenza tra transumanesimo e postumanesimo?
Il transumanismo o transumanesimo è un movimento d’opinione globale che auspica, promuove, e discute l’ampliamento della nostra capacità tecnica di trasformare noi stessi e il mondo in cui siamo immersi, in particolare in vista di una possibile trasformazione postumana.
Il postumanismo – non post-umanesimo, secondo me, perché non si definisce affatto in rapporto all’Umanesimo rinascimentale, ma all'”umanismo” come categoria culturale che certamente esisteva prima ed è continuata dopo anche in correnti ben poco legate all’eredità dell’Umanesimo – è invece essenzialmente una corrente accademica che si sforza di pensare al di là di un paradigma la cui assoluta egemonia è parsa per secoli confermare le pretese di universalità.
Al contrario, come dice Foucault in Les mots et les choses, “L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se a seguito di qualche evento precipitassero, come al volgersi del XVIII secolo accadde per il terreno del pensiero classico, possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sul bordo del mare un volto disegnato nella sabbia”.
Sotto un certo profilo si tratta perciò di paragonare mele con arance. Per di più, tra i due mondi esistono storiche diffidenze. I postumanisti spesso criticavano la presenza di ingenuità in realtà “iper-umaniste” ed escatologiche nel mondo più in generale tecnofilo.
Viceversa, alcuni transumanisti vedevano la riflessione postumanista e postmoderna come un esercizio di fumisteria intellettualistica, con ambiguità addirittura pericolosamente regressive, per esempio nel suo apprezzamento lodevolmente meno provincialista delle culture premoderne o addirittura pre-neolitiche, al fuori appunto del paradigma umanista.
Nondimeno, i due mondi erano, e sono, fatti per incontrarsi. E tale incontro è proficuamente in corso, anche grazie a personaggi come Stefan Sorgner, Riccardo Campa e modestamente il sottoscritto. Un ovvio terreno comune per esempio viene constatato da Max More, che del transumanismo è considerato unanimemente uno dei fondatori, nel breve testo Il sovrumano nel transumano; e viene identificato constatato nella comune ascendenza nietzschana, anche in polemica con i residui appunto “iper-umanisti” presenti nel movimento.
Lo stato di questi scambi è ancora ben rappresentato dall’opera abbastanza monumentale, a cura di Sorgner stesso, Beyond Humanism: Trans- and Posthumanism/Jenseits des Humanismus: Trans- und Posthumanismus.
In che senso una certa vulgata populista, cospirazionista, parla di un transumanesimo delle élite, e attribuisce alla gnosi la radice ultima del transumanesimo e del progresso tecnologico più in generale? È corretta secondo lei questa impostazione?
Abbiamo già visto che la tecnologia può certo essere prostituita al fine di evitare il più possibile nuovi sviluppi. Anche ulteriori sviluppi tecnologici, del resto, come nel campo delle moratorie e del proibizionismo in materia genetica o informatica; o semplicemente sviluppi di tipo politico resi possibili dalla diffusione sociale e internazionale della tecnologia stessa.
La relativa preoccupazione ha sicuramente un senso. Ma quello che sfugge completamente alla vulgata cospirazionista di cui parla è che non c’è nessuno di coloro che mirano a mantenere e rafforzare il sistema attuale che si considera transumanista, e che di converso pressoché la totalità di coloro che si dichiara e considera transumanista si situa su posizioni comunque critiche, ma più spesso antagoniste rispetto allo status quo, sulla falsariga del resto dell’immaginario cyberpunk, pirate, Open Source, e hacker, che alla formazione del transumanismo popolare hanno certamente contribuito, e in cui tipicamente il protagonista usa pienamente della tecnologia proprio per opporsi a realtà distopiche cui il mondo contemporaneo va sempre più somigliando e “trascenderle”.
Sul piano più direttamente politico-sociale il Manifesto dei Transumanisti Italiani già nel 2008 non solo dice parole molto chiare, seppure al netto di una maggior radicalizzazione successiva, sulla tecnologia come potere, ma anche sulla tecnologia come privilegio.
Un altro aspetto spesso sollevato da questa forma di complottismo è infatti l’enfatizzazione ed approfondimento delle differenze sociali che comporta l’uso esclusivo da parte di élite economiche delle nuove tecnologie attuali e future in campo reprogenetico, medico, educativo, di accesso alle informazioni, etc. Anche qui, però l’obiezione a questo discorso non riguarda l’esistenza di tale rischio, ma il fatto di passare dall’idea di una riappropriazione e ridistribuzione delle relative opportunità all’idea, decrescentista, pauperista, rinunciataria, del tentativo di far sì che le opportunità stesse non esistano per nessuno. Tentativo del resto velleitario, e destinato a consolidare in concreto il privilegio che si vorrebbe combattere, rafforzando per esempio la narrazione appunto delle élites occidentali relativa alla “insostenibilità” della medicina moderna – laddove l’ostilità ideologica al longevismo cessa immediatamente per chiunque non appena abbia la possibilità di ottenere altri cinque o dieci anni di vita attraverso un’operazione di trapianto di cuore il cui costo di un milione di euro potrebbe essere utilmente ridistribuito alla popolazione, se non “ai paesi poveri”…
In questo senso, la maggior parte dei transumanisti trasecola e resta sbalordita quando allo gnosticismo si sentono accomunare proprio da cattolici, “atei devoti”, umanisti ed ecologisti, cioè personaggi la cui ideologia intrinseca ruota intorno all’idea che la soddisfazione dei bisogni terreni vada subordinata individualmente e collettivamente ad una “elevazione” spirituale che solo potrebbe essere garantita da un ascetismo virtuoso e da un distacco da una realtà concepita come provvisoria ed illusoria rispetto ad un Bene supremo che trascenderebbe le identità concrete.
Ora, per chi è interessato alle tematiche del potenziamento umano, dell’anti-aging, della intensificazione ed estensione delle percezioni, dell’appropriazione tecnica dell’ambiente, della trasformazione “artistica” del mondo auspicata dal futurismo, della “fedeltà alla terra” nietzschana, la variante gnostica del monoteismo, del dualismo e della metafisica ad essi correlata, non è che una una eresia tutto sommato limitata e banale rispetto al mainstream di tale contesto, ed utile semmai ad illustrarne in modo caricaturale gli aspetti che trova più grotteschi. Non solo, nella sua prospettiva è probabile che lo gnosticismo rispetto alle forme dominanti di pensiero metafisico (religioso o secolare poco importa…) si situi semmai all’estremo opposto del transumanismo, come forma più lontana ed estrema di tutto ciò che lo distingue da tale mondo.
L’unica (flebile) parentela sta forse nell’idea gnostica che la “salvezza” consista in un percorso cui non è estranea una sapienza e una conoscenza che ci si può sforzare in certo modo di acquisire – il che come sappiamo non è estraneo alla nascita dell’alchimia, ed al contributo che questa ha a sua volta portato allo sviluppo della chimica e degli altri rami della tecnoscienza moderna – anziché nell’abbandono sic et simpliciter alla “provvidenza” e alla “natura”. Ma finalità, natura, e metodo, di tale “conoscenza” restano radicalmente diversi, e, no, non è neppure vero che gli “estremi si toccano”.
In sostanza è come dire ad un cattolico che tra cristianesimo e satanismo non c’è differenza, perché dopotutto entrambi fanno riferimento ad una entità unica nei rispettivi culti. Una battuta che magari tradisce anche qualche verità marginale, ma che non sta nella sua pretesa “acutezza” ignora completamente l’autopercezione degli interessati ed un’alterità altrettanto macroscopica.
Il fatto è semplicemente che il riferimento a satanisti o rettiliani, nazisti esoterici o massoni tende a qualificare automaticamente in senso un po’ kitsch le denunce di un certo tipo. Smascherare l’eterna congiura dello gnosticismo transumanista presta un’aria intellettuale al discorso di chi trova una nicchia personale offrendo “grandi semplificazioni” in risposta alle frustrazioni o alle preoccupazioni di fasce sempre più ampie del pubblico anche nostrano.
Prendiamo ad esempio Emanuele Franz, il “filosofo di Pordenone” che in Le origini del transumanesimo. Da Zoroastro a Zavos (Audax 2023) ci “spiega tutto” su quella che se non è una congiura sarebbe almeno una singola, pervicace malattia dello spirito che va dagli egizi all’Avesta, da Zoroastro a Platone, da questo al manicheismo, indi all’immancabile gnosticismo, ai Rosacroce, all’illuminismo, al fascismo, e da qui alla Silicon Valley, ad Harari e a Schwab, in una ridicola compilazione di notiziole alla De Crescenzo che non prevede sia necessario far caso al fatto che tutti costoro dicevano cose profondamente diverse, spesso opposte, che Harari, da professore di storia in un’università religiosa è uno dei più vocali oppositori della intelligenza artificiale, e che l’unico miliardario della Silicon Valley a dirsi transumanista, Peter Thiel, è semmai vicino ad ambienti trumpiani e ad un’alt-right a loro volta un po’ propensi alle grandi narrazioni ma che di sicuro odiano l’ideologia del World Economic Forum di Schwab stesso.
Ma anche l’ineffabile Francesco Toscano, nel suo tentativo di intestarsi “nuove sintesi” come capo politico immaginario del dissenso italiano, non è lontano da queste sciocchezze.
Nel dibattito in merito alle AI, e alla loro possibilità di battere l’uomo, il filosofo John Searle afferma che esse non potranno mai essere forti e sostanzialmente umane poiché incapaci di generare i qualia, sensazioni qualitative generate da stati coscienti. Argomento ripreso in altro modo anche dall’inventore del microprocessore Federico Faggin, per il quale l’esperienza può essere compresa solo dalla coscienza, che può essere al massimo descritta, ridotta, dalla macchina. Ci vuole spiegare questa visione, il famoso esperimento della stanza cinese, e se è d’accordo o se presenta limiti, criticità, errori?
Le intelligenze artificiali hanno già “battuto” l’uomo da quando un abaco o un pallottoliere si sono dimostrati più veloci e precisi nell’eseguire operazioni di aritmetica elementare di quanto possa farlo un cervello organico senza supporti esterni, foss’anche facendo sempre ricorso a “tecniche” quali la notazione posizionale, gli algoritmi che impariamo a questo scopo alle elementari, etc.
Questa domanda perciò riguarda tipicamente la possibilità di battere l’uomo in qualcosa di più o meno ineffabile che rientrerebbe unicamente nelle capacità del secondo. E che per altro è anche… un bersaglio mobile, vedi la vecchia battuta secondo cui si diceva che “l’intelligenza è l’insieme delle cose che i computer non sanno ancora fare”.
Le tesi di Faggin al riguardo hanno attirato molta attenzione specie nel nostro paese per il suo passato ruolo in svolte tecnologiche fondamentali – oltre che forse per essere un italiano che scrive in italiano.
Come commentatore può essere certamente arruolato in quel settore dell’antitransumanismo che conta ad esempio Geoffrey Hinton, il “padre della IA” presso Google che si è dimesso per evangelizzare a tempo pieno sull’argomento; e in un altro campo Ian Wilmut, il ricercatore che ha clonato la pecora Dolly, o Craig Venter, il sequenziatore del genoma umano e il primo a creare un organismo dotato di un DNA “sintetico”, entrambi rabbiosi bioludditi.
È ovvio infatti che nulla impedisce di essere un ricercatore di punta in tecnologie cruciali per le trasformazioni che si annunciano ed essere ideologicamente del tutto avverso alle trasformazioni stesse, come un poeta come Marinetti poteva nondimeno essere futurista, od Oppenheimer essere (o almeno diventare) un pacifista.
D’altronde, lo “scetticismo” di Faggin e altri, in materia di IA crea questa volta una sorta di alleanza tattica con chi si oppone al proibizionismo al riguardo nella misura in cui, come già si accennava, è futile sforzarsi di prevenire, reprimere o combattere ciò sarebbe anche in linea di principio impossibile.
Almeno a tale livello, l’implicita smentita che le sue teorie comportano rispetto al millenarismo totalitario ad esempio sostenuto dall’ex-transumanista Nick Bostrom (cfr. Superintelligenza. Tendenze, pericoli, strategie, Bollati Boringhieri 2023), che vuole i ricercatori sotto sorveglianza, la polizia nei laboratori, e i rogue States atomizzati od occupati, per contenere il “rischio esistenziale” che rappresenterebbe per l’umanità l'”esplosione” di una intelligenza artificiale destinata a rivelarsi inevitabilmente ostile.
Ciò detto, in quello che l’autore scrive non trovo molto che non sia già stato detto appunto da Searle, da Penrose e da altri, con argomenti cui sono già state date risposte strettamente da almeno vent’anni, come per esempio illustro io stesso nel mio libro in argomento, e che sono altresì riassunte nel libretto Are We Spiritual Machines? Ray Kurzweil Vs. the Critics of Strong Al (Discovery Institute 2002).
Per esempio, se come pensano Penrose e Faggin i cervelli organici davvero sono debitori di alcune loro caratteristiche funzionali ad effetti quantistici, la cosa non dimostra appunto che la creazione di sistemi capaci di elaborazioni quantistiche è possibile, ed addirittura banale in natura? Ma vedi anche semplicemente i riferimenti reperibili persino nella versione italiana di Wikipedia alla voce “Stanza Cinese“.
Ma per restare a Faggin, è sconcertante come lo stesso appaia sostanzialmente ignorare la decostruzione intercorsa proprio negli ultimi decenni del concetto (ingenuo, o meglio culturalmente determinato, e precisamente in senso cartesiano come già aveva intuito Heidegger nella contrapposizione del Sè all’Io) di “coscienza” sia sul piano filosofico, sia a partire da considerazioni che prima di coinvolgere le intelligenze artificiali riguardano l’idea che di “coscienza” possiamo farci, o meno, riguardo per esempio gli animali via via più lontani dalla nostra struttura ed etologia, le persone affette da particolari patologie, ma anche gli altri esseri umani tout court, che ovviamente per quanto ne sappiamo potrebbe essere tutti “zombie filosofici”, come ben illustra Daniel Dennett con il “paradosso dello zimbo” (ripreso in vari articoli e anche in L’idea pericolosa di Darwin: L’evoluzione e i significati della vita, Bollati Boringhieri 2022).
Tale decostruzione, per chi sia poco propenso a seguire il relativo dibattito, è del resto ormai largamente patrimonio anche della fiction popolare, come per esempio nel pluripremiato romanzo Blindsight del biologo americano Peter Watts (Tor Books 2008), considerato uno dei capolavori della hard science fiction recente, o prima ancora da Greg Egan in Axiomatic (trad. italiana Mondadori 1995).
Anche qui, il confronto con l’intelligenza artificiale, o anche solo con la sua possibilità, ci aiuta a chiarirci le idee su cosa intendiamo per cose come appunto la coscienza, l’intelligenza (ivi compreso cosa intendiamo quando diciamo che una persona è più intelligente di un’altra, o una specie animale di un’altra), ed infine cosa intendiamo per “uomo”.
Quindi che cos’è l’uomo per lei?
Descrittivamente, un uomo, inteso ovviamente nel senso gender-neutral di homo o di Mensch, è un membro qualsiasi dell’omonima specie, e per estensione del relativo genus di cui per altro, in attesa che qualcuno utilizzi il DNA di Neanderthal disponibile per resuscitarne uno, siamo rimasti gli ultimi ed unici esponenti. La sua intelligenza può variare, spesso non è “cosciente” in qualsiasi plausibile senso del termine, e talora non è destinato a diventarlo mai.
D’altronde, anche dopo essersi liberati dal provincialismo antropocentrico che gli vede assegnato un posto specialissimo nei progetti di esseri superiori prodotti nella sfera culturale mediorientale, l’uomo in una prospettiva sovrumanista conserva un interesse peculiare che del resto non consiste nella sua “intelligenza”, ma nella sua natura (potenziale) di soggetto storico, di “pastore dell’Essere” per usare un linguaggio heideggeriano, chiamato appunto a “divenire ciò che è” attraverso il superamento di ciò che è stato, in una trasformazione che coinvolge il mondo in senso gnoseologico ed ontologico ma proprio per questo anche in senso eminentemente pratico.
Come ben illustra Giorgio Locchi, tra l’altro in Sul senso della storia (Ar, 2016), in questo senso un uomo che non sia, non resti, trans-umano cessa di per ciò stesso di essere davvero umano. “L’uomo è qualcosa che dev’essere superato” innanzitutto perché nell’antropologia espressa dalla visione del mondo faustiana, sovrumanista e futurista è proprio il superamento la sua “essenza”.
In ogni modo, coloro che già all’inizio del Novecento si emancipano maggiormente dal paradigma culturale umanista sono concordi nell’abbandono dell’idea che lo “specificamente umano” sarebbe da ricercarsi nell’intelligenza, o peggio in un “grado” quantitativo della medesima che ci porrebbe all’apice di una qualche scala di valore universale, andando a ricercarne altrove le origini e l’essenza, a partire ad esempio dalla comparsa del binomio mano-utensile e dalla coniugazione delle caratteristiche peculiari dei primati con un’etologia da predatori su cui si accentra per esempio l’attenzione di Oswald Spengler o di Konrad Lorenz.
Così, con riguardo al fondatore dell’antropologia filosofica, scrive Maria Pansera: “Per Gehlen, viceversa, l’uomo conosce attraverso la sua azione, con un processo di reciproca interconnessione tra attività percettiva ed attività motoria. In altre parole, è possibile per Gehlen comprendere l’attività conoscitiva e l’intelligenza, specificamente umane, sulla base del concetto di azione: è radicalmente sbagliato voler additare la differenza essenziale tra uomo e animale nell’intelligenza” (L’uomo e i sentieri della tecnica: Heidegger, Gehlen, Marcuse, Armando Editore, 1998).
Anche per questo il mio testo sulla biopolitica ha come epigrafe la famosa frase goethiana “Im Anfang war die Tat”, all’inizio era l’azione.
Lei è un sostenitore anche della Biopolitica, alla quale ha dedicato due saggi (Biopolitica. Il nuovo paradigma, SEB, 2005; Dove va la Biopolitica?, Settimo Sigillo 2008), oltre ad essere populista, identitario e fautore di un’Europa forte. Dal suo punto di vista è possibile indirizzare le tecno-scienze, e le AI ovviamente, in questo senso. Vi è un confronto e anche conflitto in merito, all’interno del movimento transumanista del quale lei fa parte? Vuole chiarirci le varie posizioni?
Il primo testo è uscito dapprima sulle colonne del trimestrale l’Uomo libero nel 2003, poi dopo essere almeno triplicato di lunghezza è uscito in volume con il titolo che cita, poi ulteriormente aggiornato ha conosciuto una versione Web tuttora online contemporaneamente alla comparsa del secondo, in cui approfondisco e chiarisco alcune questioni in un’intervista ad Adriano Scianca, ed infine nel 2014 ha conosciuto un’ultima revisione in occasione della sua traduzione in inglese.
Si tratta perciò di un saggio la cui prima concezione risale a vent’anni fa esatti, e che ha attraversato vari aggiornamenti, intanto che molta acqua passava sotto i ponti. Eppure, non è cambiato assolutamente nulla nella tesi che lei molto precisamente riassume e negli argomenti che la sostengono, che nel corso delle mie riflessioni successive mi sono limitato a sviluppare.
Chiaramente, come questi scritti dimostrano, e per rispondere anche alla parte della domanda che riguarda le differenze interne al movimento transumanista, io provengo almeno principalmente dal cosiddetto transumanismo “wet”, salvo finire per interessarmi sempre più ai temi discussi in questa intervista.
Come ricordo all’inizio di Artificialità intelligenti, alla fine degli anni ottanta del Novecento, l’attenzione relativa alle trasformazioni tecnologiche – anche in relazione alle loro potenzialità in funzione di una paventata o auspicata trasformazione ‘postumana’ – si concentra su quanto veniva all’epoca definito ‘informatica e telematica’ – ivi compreso nel nascente movimento transumanista in cui è all’epoca preponderante la componente “hard”, anche sulla scorta dell’esplosione ancora in corso del World Wide Web, delle promesse inerenti alla realtà virtuale, e sul piano della cultura di massa dall’insieme dell’immaginario cyberpunk, con annessa mitizzazione della figura dell’hacker come nuova incarnazione del “ribelle”.
All’inizio del nuovo secolo, il panorama è invece largamente dominato dalle questioni inerenti alle biotecnologie, alla ingegneria genetica, al longevismo, alle smart drugs, alla sospensione crionica, etc., inerenti invece al transumanismo ‘wet’. Ancora dieci o vent’anni, e il pendolo torna a puntare nella direzione del ‘digitale’, grazie essenzialmente ai (seppur tardi e stentati) progressi concreti nella ricerca in materia di intelligenza artificiale e di interfacce neurali che finiscono per aver luogo. Ma già in Schismatrix di Bruce Sterling (trad. italiana La matrice spezzata, Editrice Nord, 1986) l’alternativa hard/wet viene rappresentata narrativamente in un mondo in cui le due ideologie e superpotenze principali sono costituite dai “mechanist” e dai “plasmatori” (in inglese “shapers”).
Ma il punto fondamentale, che resta, è che la tecnologia è pericolosissima… per chi non ce l’ha. Questo riguarda il nostro destino come specie, o clade, ma riguarda prima e soprattutto i conflitti tra le società e le culture (in senso antropologico) in cui la stessa è articolata, e prima ancora tra i modelli di società e cultura in lotta tra di loro.
In questo senso se il sistema della globalizzazione mondialista in realtà rifiuta quello che Heidegger chiama l'”essenza della tecnica” è nondimeno vero che “per farla finita con la civilizzazione occidentale”, secondo l’obiettivo cui è intitolato l’omonimo libro di Guillaume Faye e mio appena uscito è necessario un supplemento, una accelerazione, una liberazione dello sviluppo tecnologico che possa restituire ai popoli di cui facciamo parte i mezzi per affermare un’identità ed una sovranità degne delle radici cui scegliamo di ricollegarci.
Questo, malgrado la cappa del perbenismo e conservatorismo occidentalista veicolato dalla narrazione delle istituzioni, delle multinazionali e dei media occidentalisti, è del resto ormai acquisizione comune in buona parte del pianeta, nel quadro di un collasso almeno potenziale del vecchio ordine mondiale che tuttora controlla e asservisce più strettamente che mai gran parte del nostro continente.
Il mio contributo va così nella direzione di una estensione e radicalizzazione di questa presa di coscienza tra coloro che aspirano ad un destino più grande di quello della riduzione ad ingranaggi del “sistema per uccidere i popoli“.
Roberto Siconolfi, classe ’83, campano, sociologo, saggista, mediologo. Uno dei suoi campi principali di ricerca è il mondo dei media, in tutti i suoi aspetti, da quello tecnico a quello storico e antropologico, fino a giungere al piano “sottile”, “magico”, “esoterico”.
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