Roberto Siconolfi – classe ’83, campano, sociologo, saggista, mediologo.
Luca Siniscalco, nato a Milano (1991), ha studiato filosofia presso l’Università degli Studi della sua città e alla Universität Carl von Ossietzky di Oldenburg (Germania).
È attualmente Dottorando in Studi Umanistici Transculturali presso l’Università degli Studi di Bergamo, in cotutela con la Justus Liebig Universität di Gießen (Germania), con un progetto di ricerca dedicato al rapporto fra Arte, Sacro e Bellezza nel contemporaneo, in dialogo con il filosofo Hans-Georg Gadamer e gli artisti Anselm Kiefer e Hermann Nitsch.
Già professore a contratto di Estetica presso l’Università degli Studi di Milano (UNIMI) ed eCampus, tiene corsi di Filosofia e Letteratura nel progetto accademico UniTreEdu e di Metodo di Studio presso la European School of Economics.
È redattore di «Antarès – Prospettive Antimoderne» (Edizioni Bietti) e delle riviste accademiche «Informazione Filosofica», «Medium e Medialità», «Education & Learning Styles». Collabora con la rubrica culturale del «Sole 24 Ore» online. Ha curato numerosi saggi, sue pubblicazioni sono apparse su numerose riviste scientifiche e divulgative, quotidiani, e in svariate antologie.
Ha anche curato numerose mostre d’arte (personali e collettive).
A intervistarlo è Roberto Siconolfi , sociologo, saggista e mediologo. Collabora dal 2016 con numerose riviste e giornali cartacei e on line. Scrive saggi e pubblicazioni scientifiche presso il CRIFU, ha insegnato Sociologia e mediologia alla UniTre, è relatore per il canale YouTube Libreria Cavour Esoterica. È, inoltre, relatore per Lab Academy e autore di molti dei nostri blog post.
Roberto Siconolfi : Luca Siniscalco, già professore di Estetica all’Università degli Studi di Milano e dottorando in Studi umanistici transculturali all’Università degli Studi di Bergamo. Ci può dare una definizione di estetica?
Luca Siniscalco : L’estetica è quel settore della filosofia che indaga la percezione sensibile (dal greco αἴσθησις [aisthesis], “percezione”) e, con essa, affronta l’esperienza del bello e le teorie che la sottendono, interpretano e giustificano. Essendo il bello non solo naturale ma anche artificiale , l’estetica si occupa inoltre delle teorie che definiscono lo statuto dell’arte , in termini storico-descrittivi, fenomenologici e normativi.
È curioso il fatto che la riflessione estetica – assurta a disciplina autonoma solo con il trattato Aesthetica di Baumgarten, del 1750 – nasca in Occidente con Platone, uno dei più strenui critici del valore conoscitivo dell’arte – quasi come se la riflessione sull’oggetto della disciplina ne imponesse una simultanea decostruzione. D’altronde, come ebbe a notare Alfred Baeumler, la riflessione estetica, da un punto di vista storico-genealogico, non sorge con l’apparizione dell’arte, ma con l’emergere della nozione di bello.
Solo tardivamente si giungerà al riconoscimento di un certo grado di autonomia alla sfera artistica , considerata in sé e per sé, e non subordinata ad altri ambiti – come quello religioso, cui l’arte, nata sacra e a lungo rimasta tale, è strettamente connessa. Tale autonomia è una delle più grandi problematiche del destino – ossia della destinazione – della riflessione estetica, sempre stretta fra l’esigenza di definire rigorosamente le proprie categorie, il proprio metodo e statuto, da un lato, e la vocazione a farsi sapere interdisciplinare, dall’altro lato. Cosa vi è, infatti, di più trasversale della potenza metamorfica dell’immagine , in cui depositi culturali, questioni teoretiche, istanze religiose, morali, persino etico-politiche si rendono visibili e suggeriscono domande di senso abissali?
Roberto Siconolfi : Ma l’estetica è qualcosa che riguarda solo il senso della vista in via superficiale o ha anche qualcosa di più profondo? Mi spiego meglio: riguarda solo una forma specifica nello spazio, o per dirla con il filosofo René Guénon riguarda uno spazio qualitativo, materia ma anche forma, platonicamente intesa, allo stesso tempo?
Luca Siniscalco : Nietzsche diceva di amare i Greci per la loro innata attitudine a sostare sulla superficie – vivere la superficie come piega della realtà. «Oh questi Greci!» leggiamo nella Prefazione alla Gaia scienza «Loro sì sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero olimpo dell’apparenza! Questi Greci erano superficiali – per profondità!».
Posto che l’estetica, come già indicato, è un ambito disciplinare vastissimo , in cui sono sorte le posizioni più eterogenee rispetto ai problemi trattati, una considerazione profonda si dipana a mio avviso proprio a partire dalla radicalità della visione nietzscheana: non vi è, forse, una profondità della superficie ? Un senso che si manifesta nell’apparenza stessa, nella sua densità simbolica e disvelativa? Nel tempio greco, ci ricorda Martin Heidegger ne L’origine dell’opera d’arte, “è posta in opera la verità”, ossia non viene riprodotto mimeticamente un ordine di senso collocato altrove, ma “avviene” un reale disvelamento della “apertura dell’ente”-tempio “nel suo essere” : ecco “il farsi evento della verità”. “Il tempio – prosegue Heidegger – racchiude la statua del Dio ed in questo racchiudimento protettivo fa sí che, attraverso il colonnato, essa risplenda nella sacra regione. In virtù del tempio, Dio è presente [anwest] nel tempio.
Questo esser-presente di Dio è in se stesso il dispiegamento e la delimitazione d’una regione sacrale. (…). Il tempio, in quanto opera, dispone e raccoglie intorno a sé l’unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina delineano la forma e il corso dell’essere umano nel suo destino [Geschick].
L’ampiezza dell’apertura di questi rapporti è il mondo di questo popolo storico. In base ad essa e in essa, questo popolo perviene al compimento di ciò a cui è destinato”.
In questa prospettiva, quella di una estetica qualitativa, abissale, evocatrice di forme e significati, la disciplina disloca il proprio centro d’interesse dalla questione delle modalità soggettive di percezione – istanze umane, troppo umane – alla potenza disvelatrice dell’Evento (Ereignis, per dirla nel lessico heideggeriano): qui, insomma, l’arte ad-viene nel suo essere forza unitiva, trasfiguratrice, formatrice (capace cioè di in-formare il reale, raccogliendo l’informe in strutture di senso, forme simboliche). Vi è una densità di senso nel fatto artistico, che può essere indagato così, su di un piano ontologico, come avvicinamento al fondamento.
Che si tratti dunque di superfici, vette o abissi – tutte affascinanti metafore spaziali utilizzate per approcciare tematiche estetiche – vi è una sapienza dell’esperienza estetica e artistica che numerose tradizioni di pensiero hanno saputo valorizzare. Le “porte regali” con cui Pavel Florenskij identificava le icone ortodosse sono, ad esempio, figura dirimente di questa ontologia dell’arte orientata alla verità – vera e propria iconosofia. Che sia intesa in senso prospettico-nietzscheano, evemenenziale-heideggeriano, neoplatonico-florenskijano o tradizionalista-guénoniano – paradigmi, in tutta evidenza, radicalmente eterogenei, ma caratterizzati, a mio avviso, da una certa “aria di famiglia”, almeno rispetto a questo tema.
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Roberto Siconolfi : E sempre rimanendo in questa accezione, alcuni autori, da Burckhardt a Coomaraswamy, hanno evidenziato la funzione sacra dell’arte, quindi dell’estetica, nella storia. È possibile tracciarne un quadro breve ma esaustivo?
Luca Siniscalco : In un mio saggio del 2019 (L’immagine come ponte. Un’estetica del sovrasensibile) ho cercato di sintetizzare il percorso simbolico-tradizionalista sulla funzione sacra dell’arte attraverso il riferimento all’idea di immagine-ponte. Trovo ancora che questa nozione – quella della natura pontificale delle immagini – possa servire a sintetizzare efficacemente l’essenza più intima dell’immagine all’interno delle ontologie tradizionali. Nelle culture tradizionali e premoderne l’immagine è sempre stata, infatti, un ponte fra sensibile e sovrasensibile . Così come, di converso, il ponte era simbolo par excellence della mediazione fra immanenza e trascendenza, il passaggio dalla terra al cielo, dallo stato umano allo stato sovrumano, dal mondo sensibile al mondo sovrasensibile.
Per cogliere più in profondità la comprensione tradizionalista dell’immagine, fondamentali risultano gli studi sull’arte di Titus Burckhardt. L’immagine, stando a Burckhardt, è l’equivalente sensibile di una verità intellettuale: “Come una forma mentale, quale un dogma o una dottrina, può essere il riflesso adeguato, benché limitato, di una Verità divina, così una forma sensibile può evocare una verità o una realtà che trascende a un tempo il piano delle forme sensibili e quello del pensiero”. La forma dell’immagine , nelle civiltà tradizionali, evoca quindi costantemente una dimensione sovrasensibile . Questo processo è particolarmente evidente nell’arte sacra, dove le immagini hanno sempre natura simbolica.
E un simbolo, per citare ancora Burckhardt, “non è semplicemente un segno convenzionale; esso manifesta il suo archetipo in virtù di una certa legge ontologica; (…) il simbolo è in un certo qual modo ciò che esprime”. L’immagine-simbolo è dunque una connessione, entro la rete dei diversi gradi del reale, fra piani differenti, una struttura, dunque, capace di dare manifestazione visibile e immanente a un piano invisibile e trascendente. Si tratta di un sinolo sensibile in cui materia e spirito sono compresenti: “Senza il ‘sigillo’ che lo Spirito divino imprime alla ‘materia’, questa non avrebbe forma intelligibile, e senza la ‘materia’ che riceve il ‘sigillo’ divino e per così dire lo delimita, nessuna manifestazione sarebbe possibile”.
Nel Tradizionalismo Integrale, l’attenzione nei riguardi della possibilità, per l’arte, di fondare vie d’accesso dell’uomo al divino è trasversale a tutti i protagonisti di questa corrente di pensiero – severi critici, come evidente, dei risultati alienanti e infruttiferi dell’arte materialista e profana. Se, oltre al già menzionato Burckhardt, è probabilmente Coomaraswamy, con i suoi studi di estetica orientale e di simbolica, il perennialista più interessato all’arte sacra, spunti di estremo interesse si trovano pure in Frithjof Schuon, René Guénon e Guido De Giorgio.
Come non citare poi, in questo contesto, l’eccentrica adesione di Julius Evola all’avanguardia dadaista, da lui concepita proprio come una via modernissima di riaffermazione di un’arte capace di confrontarsi col Nulla – e non solo con il convitato di pietra del nichilismo moderno, ma anche con il Nulla del Principio infondato, l’Origine come Abisso e Altrove immanente?
Peraltro, in questo percorso di indagine dei rapporti vitali fra arte e sacro, il Tradizionalismo integrale non procede isolato. A intuizioni affini sono giunti tanti altri percorsi speculativi: dall’Estetica Teologica modellata da Hans Urs von Balthasar alla riflessione teologica ortodossa, con autori quali il già menzionato Florenskij e Pavel Evdokimov, i quali valorizzano, con riferimenti di orientamento neoplatonico, la matrice teandrica dell’arte delle icone, sino alla radicale posizione del critico dell’arte Hans Sedlmayr, con la sua nozione antimoderna di “perdita del centro”, e all’Estetica del Sacro elaborata in Italia da Alessandro Di Chiara.
Roberto Siconolfi : E veniamo invece al tema del giorno: l’arte con IA generative . È possibile, per dirla con Benjamin, che la perdita dell’aura nell’opera possa offrire una forma di democratizzazione massima, per cui ognuno diviene artista, ogni individuo è creatore e ri-creatore di opere?
Luca Siniscalco : Ritengo si possa rispondere affermativamente alla sua domanda. In questa prospettiva, la teoria di Benjamin è tuttora di estrema attualità: la riproducibilità tecnica annulla il distanziamento fra pubblico e opera , e questo induce a una trasformazione dell’esperienza estetica, che penetra sempre più nel tessuto della vita quotidiana. Lo studioso Fernando R. Contreras ha correttamente rilevato che la ricezione – e appropriazione – popolare delle immagini digitali ha trasformato queste figure “in nuove icone digitali che fanno riferimento al passato e a una cultura familiare e integrata nel consumo di massa. Attraverso l’appropriazione, l’opera acquisisce un nuovo significato sociale , un nuovo valore e un nuovo uso”.
Oggi si parla spesso di fenomeni di “estetizzazione” della vita sociale : l’esperienza degli uomini del nuovo millennio, soprattutto nelle metropoli urbane, è dominata da fenomeni di “iper-estetica”, ossia di stimolazione sensoriale estrema. Siamo bombardati da immagini – in televisione, sui social network, affisse ai muri dei palazzi – e questa esplosione di cultura visuale si accompagna, in parallelo, alla stimolazione uditiva (la musica diffusa, consumata non solo alle cuffie o nei locali, ma in palestra, nei negozi, in metro, persino in alcune aree pubbliche all’aperto). La superficie, con la sua forza sensuale attrattiva, è ovunque. E la tecnologia ci permette non solo di fruirne, ma anche di implementarne gli sviluppi: con lo smartphone diventiamo a nostro piacimento fotografi, con le app digitali disegnatori, pittori, musicisti, con i post su Facebook e X storyteller, ossia narratori.
L’originalità prodotta attraverso questi strumenti è molto ridotta, muovendosi all’interno di pattern fortemente consolidati e controllati. Ma, dobbiamo chiederci: siamo sicuri che il valore dell’originalità sia indiscutibile? Se guardiamo con attenzione alla storia dell’arte, ci accorgiamo come i criteri della novità e della sperimentazione siano parametri di valore strettamente moderni, connessi all’ideale dell’artista come genio e individualità extra-ordinaria. Per millenni l’arte è stata intesa, invece, come raffinamento e rielaborazione tecnica della tradizione iconografica, lavoro artigianale di disvelamento del bello negli artefatti prodotti, senza ambizione alcuna di affermazione dell’individualità del “demiurgo”. Da questo punto di vista, come notato dal sociologo francese Michele Maffesoli, oggi assistiamo alla riemersione di fenomeni arcaici: il postmoderno apre a istanze dionisiache, tribali, simboliche e sensuali, capaci di mettere in discussione i valori della modernità borghese occidentale.
I fenomeni sopra citati, che segnalano, da un lato, la radicalizzazione della spinta artistica del soluzionismo tecnico-scientifico e, dall’altro, la riemersione di fenomeni arcaici, orientato in senso mitico-simbolico, si sovrappongono in una dinamica ad oggi informe, una matassa ancora difficile da sbrogliare e porre in prospettiva interpretativa.
Se, infatti, la democraticizzazione dell’accesso alle pratiche artistiche favorite dalla tecnologia può essere certamente osservata con favore, non bisogna trascurarne i rischi: pericoli connessi, soprattutto, ad un oblio della centralità (e centratura) del senso profondo inscritto nel “fare arte”. Il quale si riconnette ad alcuni dei temi che la sopra menzionata scuola tradizionalista ha ben compreso e trasmesso.
Il rischio di confondere l’appagamento sensibile con la meta dell’arte , dimenticandone la dimensione filosofica, simbolica e spirituale, la banalizzazione della cultura, sottratta dalla dimensione tragico-esistenziale e ridotta ad entertainment, sono un portato della riproducibilità tecnica quando questa si identifica tout court con la riproducibilità del Capitale liquido – al quale si accompagnano, non a caso, processi di “vaporizzazione dell’arte” (Michaud).
Il Capitalismo della Sorveglianza (Zuboff) si è mostrato capace di sussumere alla propria visione del mondo anche i più radicali fenomeni di contro-cultura: eppure, fare arte, per non ricadere in una mera parodia dell’arte autentica, significa proprio essere-contro. Non come gusto ribellistico, ma come coscienza di un compito essenziale in quanto ontologico: stare “contro” il darsi spontaneo, caotico e informe delle cose e intervenire “magicamente” nel reale, squadrando i fili che ne costituiscono le trame, sciogliendone alcuni, legandone altri. Superficie, come abbiamo visto, non coincide con apparenza, livellamento, orizzontalità.
Convertire, per così dire, la ragion tecnica in ragion simbolica , rifondando, al tempo dell’arte post-auratica, un’arte del Grande Stile, per citare Nietzsche: questa è la massima sfida per gli artisti del nostro tempo.
Roberto Siconolfi : E ancora, è possibile tracciare una sorta di storia ciclica per oggi, si possa ritornare, a quel contatto diretto con il divino, che ispirava l’artista nell’antichità, con le sue forme e simboli sacri, e paradossalmente proprio nel tempo e con i mezzi che più di tutti sembrano allontanarsi da esse, cioè attraverso le IA generative?
Luca Siniscalco : Al tema della riemergenza del sacro nell’arte contemporanea, evocato già in diversi affondi del nostro dialogo, mi sono recentemente dedicato con la curatela del numero 20/2024 della rivista «Antarès. Prospettive antimoderne», intitolato Dissacrarte. Avanguardia e sacro nell’arte contemporanea . Negato nel mondo moderno, il sacro pare riemergere nella postmodernità scegliendo come terreno d’elezione poeti, narratori e artisti. Insieme a ricognizioni di natura teorica, il numero di «Antarès» ha voluto raccogliere le opere e testimonianze di oltre trenta artisti di spessore internazionale che intendono la loro prassi artistica alla luce di istanze verticali e archetipiche – a dimostrazione che, linee di tendenza in direzione di nuove forme e nuovi ordini sono riconoscibili, ancorché ad oggi minoritarie.
Nella vasta ridda di temi trattati, non molto approfondito è stato, a dire il vero, il ruolo delle IA generative. Nondimeno, mi pare che le riflessioni emerse in questa ricerca possano essere applicate anche ad esse. A essere in questione è infatti, prima che la tecnica o lo stile, il senso profondo dell’arte, e del suo rapporto con la società, il sacro, la bellezza e le sfide esistenziali del nostro tempo . Benché la tecnica moderna (la Forma-Capitale, direbbe Alain de Benoist), come ben evidenziato dalla gran parte della filosofia del Novecento, sia uno strumento affatto neutrale – la cui essenza, ebbe a scrivere Heidegger, è tutto fuorché tecnica – è necessario precisare che le tecniche sono da sempre e strutturalmente il nucleo concreto della pratica artistica. Perché, allora, non lavorare per re-immaginare, attraverso forme mitopoietiche trasvalutatrici un re-incanto della tecnica? Perché, dunque, non tentare una collaborazione integrata, da prospettive non mainstream, con le IA generative?
Ma, per chi non le conoscesse, di cosa stiamo parlando? Per IA generative si intendono quelle tecnologie che solitamente sfruttano programmi text-to-image , che producono cioè immagini sulla base di una descrizione verbale del prodotto visuale che si desidera ottenere, esplorando i repertori d’immagini disponibili in rete, ma operando secondo meccanismi diversi (fra cui: autoregressive models, diffusion models, GAN-Generative adversarial network).
Sono convinto che la potenza esperienziale prodotta da un’opera materica , vista la forza archetipica dell’incarnazione della forma in una corporeità fenomenica “reale” (materiale e sensibilmente percepibile), non cesserà mai di affascinare l’uomo , esercitando un’attrazione particolarmente intensa nella fruizione artistica. L’opera autentica, infatti, è realmente logos incarnato.
E, in questo processo, l’artista-demiurgo si fa mediatore di senso fra la propria esperienza e quella del pubblico, “mettendo in-forma” l’esperienza umana che interroga l’esistenza. Ma una integrazione delle tecniche tradizionali con le indubbie qualità delle IA merita una riflessione di cui gli artisti seri, proprio in virtù della loro responsabilità etica, dovrebbero farsi carico, per non lasciare questo dominio nelle sole mani dei “content creators” più ignoranti o degli speculatori del mercato (si veda il caso del “Ritratto di Edmond de Belamy, creato tramite IA e venduto all’asta per oltre 400.000 dollari).
Anche perché alcune dinamiche delle IA, pur secondo sfaccettature spesso perturbanti e problematiche, paiono riprodurre certe strutture e ontologie arcaiche, quali: l’impersonalità della creazione artistica; il riassemblaggio di elementi del canone condiviso, con effetti di citazionismo e rimando; processi di “emanazione” – dall’Uno del software ai “molti” delle singole opere generate; il rapporto fra visibile (l’immagine offerta dal medium tecnologico) e invisibile (l’“oggetto digitale” vero e proprio, che si converte in una forma percepibile solo tramite mediazione); la riproduzione di fenomeni basati su interconnessioni, relazioni, entanglement.
Elémire Zolla, nel suo Uscite dal mondo (1992), ipotizzava una funzione spirituale della realtà virtuale : questa avrebbe mostrato la natura illusoria della realtà, permettendo ad alcuni di sviluppare tecniche di oltrepassamento della coscienza ordinaria. Che ciò, sicuramente a livello collettivo, non sia (ancora?) avvenuto, non ci impedisce di ampliare la discussione alle IA applicate alla produzione artistica.
Qui, la capacità recentemente sviluppata da certi programmi di non limitarsi a rielaborare dati collazionati ma di creare ex novo opere d’arte – certo sulla base di input e stimoli, ma non avviene lo stesso per l’uomo? –, dando ad esse forma, e dunque vita estetica, è impressionante, e pone problemi teorici radicali. Sembra, infatti, che la creatività non sia più una dote solo umana . Ma, forse, non lo è mai stata… il misterioso Altrove delle Muse torna a farci visita, in forma tecnologica postumana. Rimane compito umano, tuttavia, essendo l’unica creatura animata da Kunstwollen, il desiderio profondo e radicale di “fare arte”, fornire input e, dunque, assumere scelte culturali e simboliche. D’altronde, i meccanismi di generazione dell’output artistico dell’IA rimangono imperscrutabili, come un oracolo di una religione antica. E qui la distinzione fra caso e destino torna a pesare.
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Roberto Siconolfi : Il caos del mondo postmoderno sembra offrire nuove forme, nuovi ordini. Come possiamo rapportarci ad esempio ad un’estetica post-human, cyberpunk o futuristica, osannarla come una nuova forma d’arte, in modo choosy, altolocato, come spesso si fa nelle università e nei musei di oggi, o liquidarla come qualcosa di sgradevole ed anti-estetico per eccellenza, come invece fa un certo mondo votato alla conservazione?
Luca Siniscalco : Da quanto sin qui discusso penso sia emerso come, dal mio punto di vista, sia meno interessante al giorno d’oggi riflettere su un’estetica normativa – ossia una teoria capace di identificare gli specifici parametri estetici sulla cui base definire qualcosa “bella” o “opera d’arte” – quanto rilevante, invece, concentrarsi sul potenziale esperienziale delle forme artistiche e sulle traiettorie simboliche che queste mettono in moto . Nel pluralismo del postmoderno contemporaneo, tutte le vie estetiche sono ammissibili e destinate a manifestarsi.
Torna attuale, come criterio di valutazione, l’intuizione esoterico-sapienziale che una medesima forza può essere orientata in direzioni alternative e persino opposte. Dunque, più che del genere espressivo o del movimento preso in considerazione, quello che ritengo interessante è valutare quale tipo di “mondo estetico” un’opera sia capace di evocare : orizzonti di senso, capaci di simbolizzare e trasfigurare la realtà, intensificarne la nostra esperienza, fornire un arricchimento esistenziale, dominare l’informe (o cavalcarlo) e portarci al di là di certe soglie, o, al contrario, rappresentazioni mimetiche della realtà, banali immagini e spigolature esteriori, manufatti incapaci di porsi in dialogo con lo spettatore – o funzionali soltanto a confermarne i bias e le sfaldature interiori, emotive e psicologiche?
Fra le rappresentazioni più terribili del nichilismo contemporaneo, due si ergono terribili: l’esperienza della “perdita del centro” (Hans Sedlmayr) e il riconoscimento che “Dio si è ritirato” (Léon Bloy). Nella misura in cui gli approcci estetici citati contribuiscono, anche in piccola parte, a farci riconquistare il centro e a richiamare, anche per brevi istanti, il divino nel qui ed ora, l’arte ha corrisposto alla vocazione richiesta dal nostro tempo. Tutto il resto, per dirla in termini pop, è noia…
Roberto Siconolfi, classe ’83, campano, sociologo, saggista, mediologo. Uno dei suoi campi principali di ricerca è il mondo dei media, in tutti i suoi aspetti, da quello tecnico a quello storico e antropologico, fino a giungere al piano “sottile”, “magico”, “esoterico”.