Siamo ormai una società fondata sui numeri. O almeno è quello che crediamo. Come le macchine, i robot o le automazioni che creiamo, tendiamo noi stessi all’efficienza, alla ricerca continua delle performance. Da qui per le aziende l’era dell’iper-personalizzato. Già nessuno vede più la stessa home page su Netflix o Amazon. Ovviamente parliamo di quelle organizzazioni costruite per scalare e avere successo e che sanno molto bene di abbracciare lo human-first o meglio il customer-centered design, quella strategia unica in grado di generare ricompense reali scalabili e garantite. Una pratica che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti ma comprendere e poi cambiare non è facile.
I marketer sono stati educati a pensare per canali, in un mondo offline, non per comportamenti delle persone, oppure a misurare il loro successo attraverso astrazioni e non dati. Peccato che il nuovo scenario che si sta delineando non è un’opzione.
Piuttosto che risolvere problemi reali, le agenzie ti proporranno campagne sempre più costose, i designer ti consiglieranno di aggiornare la tua identità, il tuo website o il tuo packaging sempre più spesso. E mentre i vari professionisti tenderanno a risolvere problemi per canali, i tuoi clienti considereranno la questione (della propria esperienza) in modo diametralmente opposta. Questo significa omnicanalità.
Sempre più sofisticate ed esigenti le persone si aspettano un trattamento coerente indipendentemente dalla piattaforma o il canale che stanno utilizzando. Conquistare la loro attenzione, interazione e fiducia è il vero esercizio e soluzione al problema. La riflessione è: riusciremo a permettercelo?
Immersi all’intero della rete globale, in questo “campo unificato di esperienza” detto alla Marshall McLuhan (le cui riflessioni sono assolutamente da ripassare alla luce dell’attuale situazione), la soluzione per aziende e persone, è essere presente in questa realtà in modo cosciente, attivare uno stato di coscienza per governare l’infosfera di questo “media caldo” (sempre per citare McLuhan), accettando e comprendendo il largo potere di influenza titanica che il digitale sta generando su chiunque.
Mano a mano che ci rendiamo conto degli effetti della tecnologia sulla psiche e comprendiamo quanto l’analisi dei contenuti non spieghi affatto la carica subliminale dei media, dobbiamo capire che per quelle aziende che intendono fare un passo avanti, nel marketing aziendale va totalmente abbandonato il concetto di funnel (adatto ad un mondo in cui i dati erano scarsi) per focalizzarsi completamente su quello di journey, il viaggio del nostro cliente.
Un passaggio chiave quanto essenziale da comprendere in questo scenario ipercompetitivo in cui da professionisti di settore siamo sempre più concentrati sugli aspetti tecnologici o di automazione (quasi abbagliati aggiungo), dimenticando che il nostro destino sarà comunque sempre dominato dal risultato prodotto del nostro pensiero, dai nostri comportamenti e dalle nostre azioni, non da strumenti e tecnica che tendono ad assorbirci, renderci labili, fiacchi o fluidi (per citare obbligatoriamente Bauman) e di conseguenza senza spina dorsale e soprattutto senza visione d’insieme.
Sarà chiaro a molti ormai: l’attuale era del marketing data-driven non è una questione tecnologica, per il CMO del 21° secolo della PMI italiana, il marketing del futuro è trovare rapidamente nuove modalità per saper prendere decisioni migliori e creare esperienze omnicanale che realmente coinvolgano il cliente, prima che lo faccia qualcun’altro con molta più potenza economica di voi.
Insomma, quello che manca è una mobilitazione totale non contro la tecnica ma a favore di un rapporto dialogico con il pensiero ed una cultura strategica che la dovrebbe governare, arrivando infine ad un metron: il giusto mezzo.