Daniel Casarin – Imprenditore ed analista indipendente, si dedica al mondo della comunicazione, del marketing, del business design e della trasformazione digitale.
Il concetto di tecnologia, che negli ultimi anni ha visto, in un modo o nell’altro, una sorta di esplosione di termini. Partiamo dal tema tecnologico e tecnologia, cosa si intende, in senso più ampio, con questo termine? Ne abbiamo parlato con Andrea Signorelli, giornalista e autore del libro “Technosapiens”, durante il webinar andato in onda il 5 maggio. Ringraziamo Andrea per il suo contributo. Buona lettura.
Oggi abbiamo voluto provare una nuova modalità, anche a noi piace sperimentare continuamente cose nuove e contenuti nuovi. Ho dato il via a questa prima iniziativa, che porterà anche a collaborazioni con Andrea Daniele Signorelli (a cui poi lascio la parola), che è l’autore di quello che poi sarà anche l’argomento specifico di oggi. Faccio giusto un inciso per raccontare, com’è nato e quando sono arrivato alla conoscenza di Andrea. Innanzitutto diciamo che tutto è nato attraverso il libro “Datacrazia” di Daniele Gambetta che ho e consiglio. Approfondendo sono arrivato poi all’opera di Andrea. Da qui, dopo aver letto Technosapiens, devo dire che è stata un’interessantissima scoperta per tantissimi motivi. A questo punto chiedo ad Andrea di presentarsi ai nostri ascoltatori ufficialmente.
Sì, io sono giornalista, principalmente la mia formazione è giornalistica e da ormai parecchi anni mi sono tuffato in questa specializzazione che è relativa a tutto ciò che è il mondo digitale, l’innovazione tecnologica, soprattutto quello che è l’impatto che l’innovazione digitale ha sulla società. Per cui mi è capitato che mi sono occupato tantissimo di intelligenza artificiale, mi sono occupato e mi occupo tuttora di criptovalute, blockchain, social network ma anche, banalmente, dell’impatto dei social network e dello smartphone. Più avanti parleremo, di tutto ciò che è nell’ambito dell’innovazione digitale e di come sta cambiando il mondo intorno a noi. Scrivo principalmente per Italian Tech che è il verticale di Repubblica sul mondo delle tecnologie, per Domani, per Wired e per svariate altre testate anche cartacee.
Partiamo dal tema tecnologico e tecnologia, ci puoi definire meglio cosa intendi con questo termine e poi cosa intendi quando usi questa parola coniugandola al termine sapiens?
Certo. Beh, allora prima di tutto è chiaro che parlare di tecnologia significa parlare di qualcosa di amplissimo. Voglio dire, gli occhiali sono una tecnologia, la ruota è una tecnologia. Quando noi parliamo di tecnologia, oggi nella nostra epoca contemporanea, facciamo praticamente sempre riferimento alle tecnologie digitali, ovvero tutto ciò che è stato innovativo dall’avvento del primo personal computer in poi.
È come se noi avessimo fatto una cesura e oggi utilizzassimo questo termine soltanto per definire ciò che è avvenuto dal primissimo computer in avanti nel mondo dell’innovazione digitale. Ovviamente “tecnologia”, se proprio rimaniamo al senso letterale, è tutto, è qualunque strumento che viene creato dall’uomo per conferirgli nuove abilità. Ecco quello che sta succedendo, la ragione per cui poi ho deciso nel mio libro di coniugare questo termine a Sapiens , e perché negli ultimi 15 anni secondo me ma anche secondo molti altri studiosi, anche molto più titolati di me, c’è stato un cambiamento radicale. C’è stato veramente un momento di svolta, in cui il nostro rapporto con la tecnologia ha intrapreso una direzione completamente inedita e ha avuto un impatto enorme. Questo è quello che è avvenuto ormai 15 anni fa, nel momento in cui Steve Jobs ha presentato per la prima volta l’iPhone. L’iPhone ha rappresentato veramente un cambiamento radicale , un momento di svolta.
Per la prima volta il mondo del digitale non era più qualcosa che noi avevamo stazionario su una scrivania e che dovevamo raggiungere per interfacciarci. Lasciamo perdere le difficoltà di interfacciarsi al mondo digitale, i modem, la banda larga. Pensiamo veramente solo allo strumento utilizzato, dai computer che noi possiamo portare con noi se sono portatili, ma comunque rimangono uno strumento che noi utilizziamo quando sappiamo che dobbiamo dedicare del tempo al mondo digitale, ci siamo ritrovati invece con il mondo digitale in tasca , quindi direttamente assieme a noi. Questo è stato il primo processo di quello che poi è un percorso che noi stiamo affrontando in questi anni, sempre più rapidamente, in maniera sempre più convinta: da una parte la fusione del mondo fisico con il mondo digitale e dall’altra la fusione della tecnologia con il corpo umano.
Faccio un rapidissimo riassunto di entrambi i concetti. Quando si parla di fusione del mondo fisico nel mondo digitale, credo che il modo più semplice per spiegarlo sia questo: noi spesso ancora oggi usiamo questa dicotomia, parliamo del mondo digitale, poi parliamo del mondo reale, per mondo reale intendiamo il mondo fisico, come se quello che avviene nel mondo digitale non fosse reale. Ecco, questo è chiaramente un concetto sorpassato dai fatti. Lo dimostra quello che stiamo facendo noi adesso, in questo momento stiamo facendo questa chiacchierata su Zoom, siamo immersi nel mondo digitale con gli occhi sullo schermo, ma quello che sta avvenendo è assolutamente reale. Per cui la dicotomia è: mondo fisico da una parte e mondo digitale dall’altra. Con l’avvento degli smartphone questi due mondi hanno iniziato a fondersi, perché io vivo nel mondo fisico, ma ho sempre con me in tasca uno strumento che mi permette di entrare nel mondo digitale.
Se poi assistiamo a quello che sta avvenendo, pensiamo agli sviluppi in ottica di realtà aumentata e a tutto il discorso sul metaverso, e pensiamo soprattutto ai visori in realtà aumentata, vediamo già questo percorso di fusione tra il mondo fisico e il mondo digitale e tra la tecnologia e il corpo umano, che stanno sempre più intrecciandosi l’uno con l’altro, fino a diventare un unicum indistinguibile.
D’altra parte è un po’ quello che un filosofo come Luciano Floridi ha identificato, ormai da parecchio tempo, coniando questo ormai celebre termine, “on-life”.
“Con l’avvento degli smartphone il mondo fisico e il mondo digitale hanno iniziato a fondersi, perché io vivo nel mondo fisico, ma ho sempre con me in tasca uno strumento che mi permette di entrare nel mondo digitale.”
Dal lato tuo quali sono stati i primi ricordi di quello che era il tema del digitale, e quello che significa tema digitale?
A differenza di molte altre persone che poi sono finite a occuparsi di questi temi, io non nasco come “smanettone”. Sì, da bambino, da ragazzino giocavo ai videogiochi, però, ad esempio, non ero uno di quelli che si lanciava sul Commodore 64 per modificarlo in tutti i modi…
Hai tirato fuori la biografia del sottoscritto…
Da questo punto di vista non sono uno dei pionieri, come invece evidentemente sei tu, di questo mondo. La mia passione per questo mondo nasce già quando ero piccolo, ma per assurdo era estremamente analogica, appunto. Prima tu menzionavi questo volume, Cyberpunk, è una raccolta alla quale tengo moltissimo perché è attraverso la letteratura che mi sono avvicinato al mondo del digitale, attraverso la fantascienza, attraverso il Neuromante di William Gibson, attraverso Matrix (ormai ero già più grandicello), ma prima ancora Terminator. Tutto il mondo della fantascienza, del cyberpunk e della distopia è qualcosa che veramente mi ha incredibilmente affascinato e che ha fatto sì che, pur non avendo competenze tecniche (lo ammetto anche per una questione di studi, mi sono laureato in Scienze Politiche, quindi tutto un percorso umanistico), ha fatto sì che questo mondo mi affascinasse sempre moltissimo e lo tenessi sempre molto d’occhio.
Poi, ovviamente, i primi ricordi del digitale – quello vero – quando ho iniziato a vivere immerso in Internet, sono i suoni della connessione di un modem 56K che mi permetteva di utilizzare Napster per fare quello che facevamo tutti, ovvero scaricare musica pirata o di entrare nei forum per poter finalmente discutere con qualcuno di cyberpunk, di fumetti, di fantascienza, di cui finivo a parlarne da solo, e quindi il primo vero approccio è stato quello di giocare grazie a questa cosa.
Nonostante le difficoltà e i limiti del 56K, mi si spalanca davanti un mondo di orizzonti veramente illimitati. E poi un interesse più professionale è iniziato quando ho iniziato a scrivere. Scrivevo d’altro, però scrivevo su riviste online o su riviste digitali le cui fortune o sfortune erano determinate spesso da algoritmi. E tutto questo ha fatto sì che capissi che questo era un mondo al quale bisognava assolutamente prestare enorme attenzione.
Cosa ti ha spinto innanzitutto a scrivere il tuo libro? Perché l’argomento è tosto, come accennato prima, e gli aspetti sono tanti. Da dove nasce?
Nasce dal fatto che, come accennavo prima, mi sono occupato per lungo tempo di intelligenza artificiale. Oggi per fortuna meno, ma fino a pochissimi anni fa, uno dei temi più in voga quando si parlava di intelligenza artificiale era questa prospettiva assolutamente fantascientifica e probabilmente irrealizzabile delle intelligenze artificiali che diventano sempre più simili all’essere umano, prendono coscienza e raggiungono la super intelligenza, riducendo l’essere umano in schiavitù. Insomma, tutta questa prospettiva di intelligenze artificiali che diventano, raggiungono e assomigliano sempre di più all’essere umano. Ecco, mentre io mi occupavo di questi temi e leggevo anche queste vicende, queste teorie e queste speculazioni (che dal punto di vista filosofico sono estremamente interessanti, ma dal punto di vista pratico hanno pochissime ricadute), ho iniziato a rendermi conto che forse questa chiave di lettura ci stava facendo perdere di vista quello che era un fenomeno molto più preoccupante, o comunque sicuramente molto più importante.
Ed era il processo opposto, ovvero che nella nostra epoca non è tanto l’intelligenza artificiale che sta diventando sempre più simile a un essere umano, ma è l’essere umano che per molti versi sta diventando sempre più simile a una macchina. E questo è un po’ il filo rosso che segue tutti i vari temi di cui ho scritto nel libro.
Un classico esempio che mi piace portare, perché penso che tutti possiamo relazionarci ad esso è quello di Alexa o qualunque altro smart speaker. Tutti questi smart speaker, assistenti digitali comunque li vogliamo chiamare, ci vengono venduti con una promessa: più noi li utilizziamo, più loro imparano meglio a relazionarsi con noi, più loro diventano da un certo punto di vista, umani. Quello che invece sappiamo tutti, è che siamo noi che impariamo a comunicare a loro e impariamo a parlare in un modo sempre più schematico, sempre più chiaro, sempre più diretto, sempre più privo di qualunque fronzolo e quindi non sono tanto loro che imparano a parlare come gli esseri umani, siamo noi che impariamo a parlare come una macchina per riuscire a farci capire per qualcosa in più del solo impostare il timer. Questo qui è soltanto un esempio, un aneddoto, però lo si può riportare in moltissimi altri campi. Poi credo che ci torneremo sopra.
“Nella nostra epoca non è tanto l’intelligenza artificiale che sta diventando sempre più simile a un essere umano, ma è l’essere umano che per molti versi sta diventando sempre più simile a una macchina.”
Quali sono state le difficoltà o le complessità nel trattare comunque una vasta mole di temi come questo? Perché ricordo che c’è una parte in cui si tratta di salute, ad esempio salute mentale, poi si passa alla gamification, ad esempio, qui c’è di tutto e di più.
Infatti è stata quella la difficoltà da riuscire a capire. Vedevo che da qualche parte c’era un filo rosso che univa la gamification al lavoro, che prometteva di rendere il lavoro sempre più coinvolgente e divertente. Mentre, vista questa stessa dinamica dal rovescio della medaglia, in verità sprona l’essere umano a essere sempre più produttivo ed efficiente e anche a volte sottoposto a quella che dei lavoratori californiani, nel resort della Disney dovendo lavorare a una rapidità determinata da un tabellone luminoso che diventa rosso se scende la loro velocità e diventa verde quando invece è adeguata, hanno soprannominato “la frusta elettronica”, per far capire come quella che a volte viene spacciata come gamification, da chi invece la subisce venga considerata in maniera leggermente diversa. Ecco, questo era l’aspetto della gamification. Poi c’era l’aspetto della dipendenza da smartphone e della dipendenza soprattutto da notifiche di social network e di come si crea questa dipendenza.
E poi c’era la questione, appunto, della realtà aumentata e di come l’essere umano si stia fondendo alla tecnologia. Quindi cos’era che teneva insieme tutto questo? Alla fine me ne sono reso conto, ed è un po’ appunto, quello che poi dicevo prima, che ha dato anche il titolo al libro, è il fatto che l’essere umano per molti versi si stia robotizzando.
Se noi andiamo a vedere che cosa accomuna tutti questi tre aspetti è che questi stimoli forzati (che costringono il lavoratore a tenere determinati ritmi, ad operare in determinati modi estremamente rigidi ed estremamente prefissati e che poi addirittura lo rendono sottoposto a ranking a punteggio, a votazioni) ricordano più il modo in cui a volte tratteremo un robot, di come dovremmo trattare un essere umano.
Il fatto che gli smartphone e i social network incentivino le nostre risposte sfruttando meccanismi neurologici, tra cui quello della produzione di sostanze come la dopamina e facendo appello a strumenti già utilizzati per esempio dalle slot machine, e che sono alla base della ludopatia, anche questo fa sì che in un certo senso si consideri l’essere umano come un robot dal quale attirare determinate reazioni in maniera quasi automatica in un mondo in cui adesso (questo ovviamente non c’è nel libro) ci viene promesso un futuro nel metaverso, in cui noi viviamo sotto forma di avatar. Anche questo inevitabilmente ci fa pensare all’essere umano come qualcosa di sempre più digitalizzato, robotizzato, automatizzato. O anche l’esempio che facevo prima, della nostra relazione con gli smart speaker, spiega che invece di umanizzare loro, costringono noi ad una comunicazione sempre più robotica. Ecco, questo è stato sicuramente il filo rosso che ha tenuto assieme tutti i vari temi molto diversi tra loro che tratto nel libro.
Secondo me è una tendenza molto, molto, molto importante, a cui prestare anche parecchia attenzione. Soprattutto nel momento in cui magari un imprenditore per molti versi da ammirare, come può essere il caso di Elon Musk, ci mette di fronte a quello che sembra a volte una sorta di ricatto, ovvero: o voi accettate che il futuro del lavoro, il futuro della socialità sia questo, oppure voi diventerete obsoleti perché sarete superati dall’intelligenza artificiale, come se in tutto questo noi non avessimo nessuna legge, nessuna capacità, tra l’altro, decisionale. Ma siamo noi che possiamo determinare il nostro futuro. Non c’è niente di già deciso.
“Ci viene promesso un futuro nel metaverso, in cui noi viviamo sotto forma di avatar. Anche questo inevitabilmente ci fa pensare all’essere umano come qualcosa di sempre più digitalizzato, robotizzato, automatizzato.”
Chiaro. Ricordo assolutamente e mi ricollego a dei temi che emersero giorni fa in un interessantissimo libro di Nir Eyal “Hooked” (che è un po’ una mini Bibbia, diciamo, nel settore tecnologico nostro, da cui si è tratta ispirazione in lungo e in largo), tematiche collegate all’ambito di quei famosi trigger, la famosa dopamina, che accennavamo adesso. E ricordo sempre che nel libro si andavano a delineare anche quelle tematiche che poi sono trattate come “addicted by design”, poi da lì, se non ricordo male, che inizia un po’ tutto. Vuoi raccontare un pochino meglio cosa s’intende con questo concetto, “addicted by design”?
Sì, assolutamente. E lo farei partendo e prendendola leggermente alla larga. A me capita a volte di tenere lezioni anche nei licei o negli istituti superiori in generale, quindi con ragazzi adolescenti fondamentalmente, che ancora magari non si sono occupati di questi temi, magari non li hanno ancora scoperti o magari sì, o comunque sono ancora in fase di crescita. Qualunque sia il tema di cui mi occupo, sono sempre legati all’innovazione digitale, ma possono essere diversi tra loro. Quello che poi succede a fine lezione, è che mi ritrovo regolarmente circondato da ragazze e ragazzi che hanno una sola domanda da pormi: come faccio a liberarmi dello smartphone? Come faccio a studiare tranquillamente senza ritrovarmi in mano lo smartphone senza neanche rendermene conto? Perché non sono in grado, anche se lo tengo in un’altra stanza?
Questa cosa mi ha colpito molto, perché da una parte abbiamo fatto veramente capire come loro per primi siano perfettamente consapevoli di quello che è un problema che tutti abbiamo, ovvero la dipendenza da smartphone e anche da social network (che poi ovviamente tra di loro sono dei perfetti alleati), anche i ragazzi ne sono perfettamente consapevoli. Loro però hanno un aspetto in più, ovvero che spesso sono colpevolizzati, a differenza nostra, che siamo adulti, e nessuno può sgridarci perché stiamo tutto il tempo attaccati allo smartphone (se non magari la moglie, o magari, per chi ce li ha, anche i figli, può succedere, ma ovviamente è molto diverso). I ragazzi spesso si sentono anche dai media, dai racconti, colpevolizzati per questo loro uso e abuso di smartphone e social network. Quindi sembra veramente come se fosse una questione di forza di volontà: siamo noi che siamo deboli, siamo noi che preferiamo la via comoda.
Adesso mentre si legge un libro è difficile pensare, guardare l’orizzonte facendo pensieri poetici, è troppo faticoso, e quindi prendiamo in mano lo smartphone. Esploriamo Instagram senza pensarci più in maniera così stolida e vacua.
Non siamo di fronte a uno strumento neutro che noi decidiamo di utilizzare male. È questo il concetto di “addicted by design”, siamo di fronte a degli strumenti che sono stati progettati dai più grandi colossi della nostra epoca , aziende da migliaia di miliardi di valore economico che hanno progettato questi hardware o questi software al solo scopo di tenerci incollati quanto più tempo possibile. Questa cosa, che da lungo tempo si sospettava, poi nel corso degli anni è chiaramente emersa e grande merito va dato a Tristan Harris, ex designer di Google che ne ha fatto una sua battaglia negli ultimi anni, raccontando proprio dall’interno (da lui, che per lavoro faceva esattamente questo) come funzionava e quindi anche facendo degli esempi molto semplici (oggi magari sono un po’ datati, perché questo tema fu sollevato nel 2017 e nel 2018), mi ricordo che lui faceva l’esempio della mail su iPhone che per aggiornarla bisogna tirarla giù, compare una rotellina che gira e poi “bingo”, compare una notifica o una mail. Ok, hai vinto.
È la stessa identica dinamica della slot machine, ovvero tiro la rotella, girano le rotelline e poi vedi la combinazione dei risultati o le stesse notifiche sugli smartphone. Con questi colori accesi, tutto ciò non è casuale nel mondo delle slot machine e nel gioco d’azzardo. Lo avevamo già scoperto, ed è questo che poi contribuisce a generare un fenomeno, un disturbo come la ludopatia. E oggi tutto questo esiste nel mondo dei social e degli smartphone che sfruttano fondamentalmente la dopamina, sostanza prodotta dal cervello per incentivare a ottenere ricompense , probabilmente prodotta dal nostro cervello per facilitare il sostentamento e quindi incentivare alla caccia e darci una ricompensa neurologica nel momento in cui con la freccia colpivamo il cinghiale. Oggi invece, è utilizzata per tenerci attaccati allo smartphone, perché a scatenare la dopamina sono le notifiche, che danno queste brevissime scariche di soddisfazione per darci un premio o una ricompensa ; significa che qualcuno ci sta dando attenzione, pensando a noi, e utilizzano queste brevissime ricompense per renderci dipendenti. Più le riceviamo, più ne vogliamo ricevere. Se non le riceviamo, più siamo incentivati, più siamo desiderosi di trovare il modo per ricominciare a prenderle. Questo meccanismo è raccontato anche molto bene da un documentario su Netflix (per molti versi criticabile, io l’avevo definito brutto ma necessario). Tra l’altro adesso mi sfugge il nome, “Social Network”?
Beh, comunque era uno degli ultimi. Adesso “Social Dilemma”, forse uno degli ultimi usciti su Netflix, che mostrava benissimo il caso delle persone che proprio postano sui social. E poi, come tutti noi (ed è inutile negarlo), non possono fare a meno di prestare un’attenzione spasmodica a quanti like hanno ricevuto. E c’è poco da stare dietro agli strumenti che gli stessi Facebook, iPhone o Android introducono per calmierare questi loro stessi problemi, come può essere il “non disturbare” dell’iPhone, che continua a cambiare in modi anche abbastanza ipocriti; questa modalità di nascondere il conteggio dei like su Instagram, perché è ovvio che non saranno mai loro a risolvere il problema che loro stessi hanno creato , dobbiamo essere noi, esseri umani, forse addirittura la politica, a prendere il toro per le corna. Il loro unico interesse è vendere iPhone o sfruttare l’economia della nostra attenzione e quindi tenerci quanto più tempo possibile attaccati ai social.
“Non siamo di fronte a uno strumento neutro che noi decidiamo di utilizzare male. È questo il concetto di “addicted by design”, siamo di fronte a degli strumenti che sono stati progettati dai più grandi colossi della nostra epoca al solo scopo di tenerci incollati quanto più tempo possibile.”
Da osservatore e addetto ai lavori, a che punto siamo rispetto anche al digitale, e a quello che hai visto accadere in questo ultimo anno (dopo appunto Technosapiens)?
Citavi anche tu la polarizzazione. È come se veramente la nostra epoca fosse, sotto quasi qualunque aspetto, caratterizzata da una polarizzazione sempre crescente. Questo lo si vede anche proprio nel mondo del digitale, dello studio del digitale. Perché da una parte abbiamo visto questo tecno-ottimismo che aveva caratterizzato soprattutto la prima metà del decennio scorso, e dall’altra parte, invece, questa visione distopica (alla quale, poi, più probabilmente entro in sintonia anche io), che è quella che più ha caratterizzato la seconda metà degli anni Dieci e anche in questi primissimi anni del nuovo decennio. Ed è come se queste due visioni di queste due chiavi di lettura fossero sempre più caratterizzate da un’incomunicabilità tra di loro.
Adesso stiamo traducendo il nuovo libro di Kai Fu Lee che si chiama “AI 2041” in lingua originale, dove lui dipinge fondamentalmente questo mondo utopistico, fantastico e meraviglioso, reso possibile dalle capacità dell’intelligenza artificiale, quindi tecno-ottimismo vero e proprio e anche tecnosoluzionismo, insomma, in molti casi. Dall’altra invece abbiamo chiavi di lettura assolutamente drastiche e negative, assolutamente distopiche, che in questo momento stanno iniziando anche un po’ a mostrare la corda. Quello che sappiamo è che, come sempre capita, la verità è nel mezzo. Il fatto che l’intelligenza artificiale abbia delle grandissime potenzialità è sotto gli occhi di tutti. Il fatto che possa portare moltissimo beneficio alla nostra società è innegabile. Pensiamo alla velocità con cui è possibile diagnosticare malattie, pensiamo al supporto che può dare a ciascuno di noi mentre sta svolgendo i suoi lavori più routinari, anche a me stesso, per esempio, nel momento in cui mi trovo a tradurre, incorporato con un’intelligenza artificiale, è DeepL, che mi supporta nel momento della traduzione. Quindi è diventato, e sta diventando, veramente uno strumento dalle potenzialità straordinarie , che sempre di più si fonde nella nostra esistenza quotidiana senza quasi più che noi ce ne rendiamo conto.
Dall’altra parte sarebbe incredibilmente ingenuo non guardare quelli che sono i grossi rischi a cui ci espone l’intelligenza artificiale. Per esempio, quella del pregiudizio di algoritmi di riconoscimento facciale che si confondono, sbagliano , soprattutto quando hanno a che fare con alcune minoranze etniche, e già negli Stati Uniti hanno provocato l’arresto di tre persone, tutte e tre casualmente nere. Perché l’algoritmo si era sbagliato e perché vengono addestrati con dati che sono affetti da un pregiudizio di fondo. Quindi lo stesso strumento che porta, da una parte straordinarie opportunità, dall’altra presenta anche grandissimi rischi. Ecco quello che forse manca, a causa di questa polarizzazione: la capacità di tenere assieme le due cose , non focalizzarsi solo su l’una o sull’altra, ma riuscire a tenere assieme entrambi gli aspetti. E nell’ultimo anno questo stesso problema si è verificato in quelle che sono state poi le due grosse innovazioni di cui si è parlato tantissimo negli ultimi mesi.
Da una parte quella del metaverso, dall’altro un po’ questa nuova prospettiva, sempre collegata al metaverso, che è quella della realtà aumentata . Abbiamo visto interpretazioni diametralmente opposte, abbiamo visto una grandissima confusione di termini, abbiamo visto il marketing che prendeva possesso di tutte queste innovazioni, terminologie, fondamentalmente offuscando e rendendo sempre più difficile capire veramente di che cosa si trattasse. Ancora una volta ci troviamo di fronte a delle nuove prospettive e nuovi scenari, nuovi scenari in cui, però, riuscire a districarsi e riuscire a ben capire quali siano le vere potenzialità e quali siano i veri difetti, e così riuscire anche magari a contribuire a dare loro una forma più compiuta e magari anche più intrigante per il futuro, diventa sempre più difficile. Quindi lo stesso processo a cui abbiamo assistito negli ultimi anni continua a riproporsi anche quando si tratta delle ultimissime e più recenti innovazioni.
Nel libro è anche citato il primitivismo, ce lo puoi spiegare brevemente? Non si trova spesso questo termine.
Il primitivismo. Tra l’altro uno potrebbe dire, già solo la parola può fare vagamente intuire di che cosa si tratta. Uno potrebbe chiedersi: “che cavolo ci fa una teoria come quella del primitivismo all’interno di un libro dedicato all’impatto del digitale sulla società?” Beh, io credo che questa teoria, (per farvi capire quanto è estrema) il manifesto di questa teoria l’ha scritta Ted Kaczynski, ovvero Unabomber, una persona che è in galera da decenni perché era un terrorista che piazzava le bombe in giro per ribellarsi contro la società moderna tecnologica, quindi una persona assolutamente ingiustificabile, che ha causato anche dei morti, aveva scritto questo manifesto in cui, inutile negarlo, ci sono delle intuizioni molto interessanti. Tra cui, quella che mi ha colpito molto quando l’ho finito di leggere (perché mi era stato consigliato come opera assolutamente folle da qualche amico), il fatto che lui parlasse di come, dopo la rivoluzione industriale, l’uomo stesse diventando sempre di più un ingranaggio nella società, e di come lui abbia avuto questa intuizione.
Tra le varie cose aneddotiche, racconta di un giorno che si è trovato in macchina su una strada completamente deserta, c’era il semaforo rosso, non arrivava nessuno da destra, nessuno da sinistra, ma lui comunque sapeva che doveva rispondere al semaforo rosso. E quindi per uno come me che stava iniziando a studiare, stava iniziando a ragionare su come l’essere umano stesse diventando sempre più una macchina, a vedere che, questo terrorista avesse negli anni ’70 riflettuto su come la rivoluzione industriale ci avesse reso degli ingranaggi e su come i giusti, doverosi e inevitabili compromessi che ci servono per vivere in società facessero sì che non reagissero ad alcune situazioni, un po’ come dei robot, c’è un semaforo rosso, io non mi muovo, anche se tutto il resto, qualunque altro senso, dovrebbe dare il via libera. Ecco che ha fatto sì che mi iniziassi a incuriosire verso questo mondo del primitivismo, che fondamentalmente dice soltanto una cosa: da quando l’essere umano ha accettato la rivoluzione industriale, ha accettato di utilizzare strumenti che non sa più come funzionano. Allora non è più lui che usa gli strumenti, ma sono gli strumenti che utilizzano lui, e l’unico modo per l’essere umano di ritornare libero è quello di rifiutare tutto ciò che è tecnologia digitale , tutto ciò che sono strumenti troppo avanzati. Ritornare, per farla molto breve, a quella che era la nostra condizione di cacciatori e raccoglitori. Ora, non solo è una prospettiva estrema, radicale, folle (sicuramente infattibile, non possiamo tornare a fare cacciatori, raccoglitori se siamo 7 miliardi sul pianeta), però, che aiutava veramente a guardare le cose da una prospettiva inedita. E chiudo dicendo che le persone che si sono avvicinate a teorie di questo tipo non sono soltanto pazzi terroristi.
Anche uno studioso di primissima categoria come Jared Diamond, l’autore di “Armi, acciaio e malattie” e uno più recente come Yuval Harari, che ha scritto “Sapiens Homo Deus”, entrambi hanno riflettuto su questioni molto simili, cioè come fondamentalmente l’essere umano, attraverso la rivoluzione agricola, la rivoluzione industriale, il benessere a tutti i costi, forse si è andato a infilare in una grande trappola.
“Non è più l’essere umano che usa gli strumenti, ma sono gli strumenti che utilizzano lui, e l’unico modo per l’essere umano di ritornare libero è quello di rifiutare tutto ciò che è tecnologia digitale.”
Tra i tanti passaggi che mi sono appuntato mi ha colpito uno in particolare e che condivido: “Non sarebbero gli smartphone a disgregare la società, ma al massimo la società disgregata che ci porta a passare più tempo sugli smartphone”. Nel tuo lavoro di ricerca cosa è emerso innanzitutto di questi cambiamenti, e quanto si sta facendo in termini di ricerca in quest’ambito?
Quello che è emerso da questo punto di vista, è quello che dicevi tu, cioè il fatto che magari non sono gli smartphone che disgregano la società, ma una società disgregata che ci fa passare sempre più tempo sugli smartphone. Un po’ come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina. È difficilissimo dare una risposta. In verità quello che sta emergendo è che, è vero che gli smartphone hanno tutta una serie di criticità e di problematiche molto pesanti (e ne abbiamo anche già parlato), ma allo stesso tempo a volte sembra di aver trovato il capro espiatorio perfetto.
Qualunque cosa succeda, qualunque problema ci sia è colpa dei social network ed è colpa degli smartphone: quindi se vince Donald Trump è colpa degli smartphone, se noi siamo sempre più soli è colpa degli smartphone, se la società è disgregata è colpa degli smartphone. Tutto quello che non va nella nostra società è colpa degli smartphone e dei social network. E questo, è senza ombra di dubbio una visione riduzionista che potremmo definirlo veramente un andare a cercare un capro espiatorio. E così anche magari evitare di indagare problemi che sono molto più seri degli smartphone e dei social network, che sono magari quelli della disuguaglianza, quella di un mondo del lavoro che non presta più attenzione a tenere assieme il tessuto sociale, quella di affetti che si allontanano sempre di più l’uno dall’altro, questo è nelle metropoli e non è particolarmente il caso dell’Italia.
Però pensiamo a città come Tokyo, come Pechino, metropoli che non sono minimamente pensate per essere vissute, per tenere assieme le persone. Quindi problemi molto, molto pesanti che la nostra società contemporanea sta affrontando vengono risolti dicendo: “vabbè, ma si soffri di solitudine perché passi troppo tempo sullo smartphone”. Ecco, magari è molto utile anche guardare le cose da un altro punto di vista: io passo molto tempo sullo smartphone perché sono solo, e sono solo perché la nostra società negli ultimi 10, 20, 30, 40 anni ha preso delle direzioni che a volte (non sempre, per fortuna) hanno questo tipo di effetto sulle persone.
Poi chiaro gli stessi smartphone non contribuiscono, non aiutano, o magari danno la sensazione di aiutare. Però, anche se abbiamo citato la vittoria di Donald Trump, anche lì, non è Facebook che ha fatto vincere Donald Trump. Sono problemi molto più profondi della società statunitense che hanno causato la vittoria di Donald Trump. I social, semmai, possono solo averlo aiutato, possono aver amplificato. Ecco, questo secondo me è un aspetto importante da sottolineare. I social non creano nulla di quelle che sono le caratteristiche della nostra società. Per come sono costruiti e progettati, possono amplificare alcune dinamiche già in atto. Mettiamola così: la polarizzazione politica della nostra società, il fatto che sia sempre più difficile comunicare tra persone che hanno visioni diverse non è causato dai social network; i social network, però, rendono ancora più difficile comunicare, e aiutano la polarizzazione della società.
Su questo concordo. Prima parlavamo di smartphone, e prima ancora hai citato, invece, la realtà aumentata. C’è questa forte tendenza, che non è quella di dieci, dodici anni fa della Second Life di turno, della realtà virtuale ipotetica. Si sta andando verso qualcosa di ben più concreto da questo punto di vista. Quali stai intravedendo come problematiche, come livelli di attenzione che queste tecnologie possono scatenare? Mentre oggi siamo tutti ancora con il telefono in mano, poi ci immaginiamo un qualcosa di più, come la vedi questa tendenza?
Ecco, qua ci colleghiamo un po’ a quello che dicevamo all’inizio. Credo che sia innegabile, perché penso che sia molto probabile che lo smartphone evolva veramente nei visori in realtà aumentata e che nell’arco di 5, 10, 15 anni i visori in realtà aumentata probabilmente sostituiranno davvero gli smartphone come nostro mezzo di comunicazione, socializzazione predefinito. E questo ha chiaramente come sempre dei vantaggi e degli svantaggi dal punto di vista dell’attenzione e non solo, diciamo che presenta parecchi rischi. Oggi noi abbiamo la possibilità di interfacciarci allo smartphone quando lo vogliamo, abbiamo la possibilità di metterlo in tasca e comunque, per entrare nel mondo digitale, dobbiamo compiere un gesto, dobbiamo prendere in mano lo smartphone e entrare all’interno di ciò che ci offre. Quando e se la nostra modalità di base sarà quella di essere collegati al mondo digitale attraverso i visori in realtà aumentata significa che la nostra modalità di essere connessi al mondo digitale sarà quella di default , sarà quella di partenza.
Noi saremo immersi nel mondo digitale dal momento in cui ci svegliamo (ancora più di oggi), al momento in cui andiamo a dormire, perché porteremo probabilmente questi visori costantemente sui nostri occhi. Ecco, pensiamo alle difficoltà che oggi noi stiamo avvertendo in termini di concentrazione, magari anche in termini di overload cognitivo, in termini di stress causato dalle notifiche. È evidente che le notifiche causano delle piccole scosse di stress, perché il nostro cervello che comunque per il 99.9% della sua esistenza si è evoluto quando noi eravamo ancora cacciatori, raccoglitori e vivevamo nelle caverne, tutti questi suoni improvvisi li elabora come segnali di allarme, come piccoli segnali d’allarme. Quindi voi immaginate che tutto quello che oggi fa sì che il nostro stress, i nostri piccoli segnali d’allarme, la nostra difficoltà a concentrarci, invece di essere racchiuse in uno smartphone, siano proiettati direttamente davanti ai nostri occhi.
Ecco, il pericolo principale di questa nuova prospettiva della realtà aumentata credo che possa essere quello dell’overload cognitivo. Poi non tutti sono d’accordo. Questa è la mia visione, forse perché io in prima persona a volte mi sento un po’ sopraffatto dalla mole di cose che mi possono raggiungere tramite internet, tramite lo smartphone e dalla sensazione di dovere che avverto io di dover riuscire a stare dietro a tutto, e quindi il fatto di non potermi neanche più rifugiare dicendo: “Basta, questo lo metto via”, perché noi saremo sempre più immersi in questo mondo e la nostra costante reperibilità e il nostro costante reagire immediatamente alle notifiche sarà sempre più dato per scontato (e già oggi sappiamo quanto lo sia). Ecco, questo forse secondo me è un po’ il contro, un po’ la direzione negativa. Il difetto che già oggi tutti noi ci troviamo nel mondo del digitale in cui siamo immersi, che diventerà ancora più esponenziale. La domanda da porsi secondo me è: il vostro cervello è davvero in grado di gestire tutto questo? A un certo punto rischia veramente di crashare. Secondo me questo è un tema interessante. Poi ci sono anche molti aspetti però positivi della realtà aumentata. Magari ci torniamo.
“Il pericolo principale di questa nuova prospettiva della realtà aumentata credo che possa essere quello dell’overload cognitivo.”
L’importanza di avere un consulente marketing esterno
Ecco era già pronta, la domanda sulla realtà aumentata. Da dove nasce la tua convinzione e questo ottimismo verso la realtà aumentata, anche rispetto al metaverso di cui si sta iniziando a parlare?
Sì, per sintetizzare, al massimo, per aiutare chi ci segue ad ambientarsi immediatamente, quello che vorrei provare a dire è che il metaverso, è questa idea che noi in un futuro saremo sempre più spesso calati in un mondo in realtà virtuale. Indossando un visore che ci occlude completamente la vista del nostro mondo fisico in cui viviamo, che ci isola e ci aliena da esso, per proiettarci in un mondo completamente virtuale, in cui noi, tramite avatar e magari sempre seduti sul nostro divano, è lì che trasferiamo una parte sempre crescente della nostra quotidianità: lavoro, socialità, intrattenimento, lo sport. La prospettiva delineata soprattutto da Zuckerberg e da Meta è quindi quella di un mondo virtuale che noi viviamo in realtà virtuale (quindi completamente immersi in un mondo digitale a 360 gradi aperto, all’interno del quale noi possiamo interagire), trasferendo lì una parte sempre crescente, appunto, della nostra quotidianità. Questa è l’idea del metaverso.
Dall’altra si contrappone, nonostante venga spesso inclusa anche sotto l’etichetta metaverso (per molti versi queste due prospettive sono opposte, più che complementari), l’idea della realtà aumentata. Per realtà aumentata si intende l’utilizzo di visori che sovrappongono il digitale al mondo fisico. Quindi non è il digitale che sostituisce il fisico, ma è il digitale che si sovrappone al fisico. Per fare un esempio molto chiaro, io indosso dei visori (già oggi ci sono alcuni prototipi quasi indossabili nella quotidianità anche se con funzionalità molto limitate), io indosso questi occhiali, immaginiamoli come degli occhiali un po’ più ingombranti, che mi permettono di vedere il mondo attorno a me. Ma se io devo visualizzare le indicazioni di Google Maps, non le vedrò più su uno smartphone, ma tramite questi visori direttamente incorporati sull’asfalto e magari vedrò mentre cammino, e mentre sto parlando con un amico vedrò in un angolino del mio campo visivo comparire le notifiche relative alle mail che sto ricevendo. Quindi il mondo digitale si sovrappone e in alcuni casi si integra al mondo fisico. Vedo un monumento e faccio un gesto con la mano per far comparire sopra il monumento le informazioni digitali che mi danno qualche notizia su di esso.
Ecco, io credo che tra le due, questa prospettiva sia estremamente più promettente perché non credo che noi vorremmo vivere in un mondo completamente digitale. Non credo che noi vorremmo vivere in uno scenario alla “Ready player one”, in cui noi ci trasferiamo definitivamente in un mondo virtuale. E credo che lo stesso Zuckerberg, in alcune delle presentazioni che ha dato, sia riuscito involontariamente a farci capire perfettamente perché noi non lo vorremo. Recentemente ha fatto questa presentazione dove lui era in una realtà virtuale, in uno spazio vuoto e poi diceva: “Qua voglio un po’ di sabbia, qua voglio il mare, una palma, poi il sole, qualche nuvola e la musica”. Poi diceva: “Che bello adesso sono in una spiaggia e mi godo questa spiaggia in realtà virtuale”. In verità in quel momento lui era seduto su una sedia, non sentiva il calore del sole, non sentiva la sabbia tra le mani, non poteva andare a farsi un bagno, e quindi io perché mai dovrei utilizzare la realtà virtuale per poi stare seduto su una sedia a guardare una rappresentazione poligonale di qualità (anche abbastanza scarsa) del mare, quando posso prendere un treno e andarci veramente?
Non è tutto sommato una prospettiva così impossibile, per cui credo che il metaverso e la realtà virtuale resteranno (questa la mia personale convinzione) confinate ad alcune esperienze straordinarie e, nel senso letterale del termine, extra ordinarie. Come può essere un videogioco, come può essere una corsa clandestina che non possiamo fare nella realtà e quindi la facciamo in realtà virtuale, come possono essere questi mondi alla Fortnite (che non è la realtà virtuale, ma immaginiamola realtà virtuale) che hanno però anche una forte impronta sociale, ma che sono esperienze che noi iniziamo e chiudiamo in momenti ben precisi della giornata.
Per quanto riguarda invece la nostra quotidianità, credo che sia molto più promettente la realtà aumentata perché ci permette di vivere nel mondo fisico. Tutti noi lo stiamo vedendo con la riapertura dopo il Covid-19. Il Salone del Libro, che è la cosa più analogica di questo mondo e la più fisica di questo mondo, ha fatto il record di presenze della sua storia.
Dopo due anni di pandemia, non abbiamo deciso di rinchiuderci ancora di più sui nostri smartphone, anzi non vedevamo l’ora di uscire. Ecco l’idea di passare la giornata con addosso un visore che mi isola e mi aliena completamente e che non mi permette neanche di vedere se il cane mi sta sbranando il divano mentre io sono connesso in realtà virtuale, secondo me non è una prospettiva fattibile, se non per determinate limitate esperienze. La realtà aumentata, invece, permette di arricchire digitalmente il mondo in cui viviamo e quindi di avere, come direbbero gli inglesi “best of both worlds”, il meglio di entrambi i mondi , pur con le criticità di cui abbiamo già parlato.
Cosa ci sentiamo di consigliare, infine, a chi opera all’interno del sistema stesso, accelerando il processo digitale e trasformazione digitale? Dal punto di vista di tutti quei soggetti che comunque organizzano quel set di informazioni all’interno dell’azienda per attivare quelli che sono dark pattern e quindi per catturare l’attenzione degli utenti e guidarli lungo quello che viene chiamato appunto il diario di viaggio dell’acquirente, o il customer journey map in termini in glossario tecnico. Che ti senti di consigliare?
Secondo me gli aspetti importanti sono due, soprattutto uno, perché permetterebbe proprio qualora si verificasse, di spostare il focus delle aziende che operano in questo settore da quello che è stato fino ad oggi una delle primissime caratteristiche da tenere in considerazione, ovvero l’economia dell’attenzione , e permetterebbe in parte di spostare la spesa dai social network a tutto un ambiente che è sempre ossessionato dalla capacità di trattenere l’attenzione del cliente. Spesso molte piattaforme (ovviamente non mi riferisco a piattaforme di e-commerce) magari di social network o di altro tipo, basate sulla pubblicità, hanno una necessità totale di massimizzare economicamente il tempo che l’utente trascorre su quelle piattaforme, perché è solo su quello che si basa la sua capacità di guadagno. Ecco, da questo punto di vista sono in corso dei cambiamenti che potrebbero completamente stravolgere questo modello e sto facendo riferimento a quello che è il cosiddetto Web 3.
Ora, al di là del fatto che ancora si tratta di un’ennesima etichetta di questo anno, che di etichette ne ha viste una miriade, per non parlare di NFT, eccetera, il web 3, che fondamentalmente è un Internet che integra al suo interno le criptovalute , inglobando le proprie al suo interno e facendo sì che tutto quello che è la nostra esperienza del web e della rete diventi anche un’esperienza potenzialmente monetizzabile ed economica proprio attraverso questi scambi di criptovalute e questa sorta di economia e condivisione , magari una parola un po’ troppo buona, in cui però l’idea è che tramite la blockchain io posso dare in affitto un pezzo della memoria del mio computer, dell’archivio del mio computer per ospitare contenuti altrui, invece di affidarsi ad Amazon. Ovviamente il tutto garantito, certificato e tracciabile tramite blockchain e in cambio ricevo dei token che posso utilizzare per influire sulla governance di un nuovo social network che utilizza questi modelli.
Poi ci sono per esempio l’idea dei videogiochi pay to earn o game fi, la finanza dei videogiochi che utilizzano le criptovalute per dare un compenso a chi partecipa a questi videogiochi, e poi magari crea i suoi personaggi (l’equivalente odierno di Street Fighter) personalizzati e poi li rivende tramite NFT. Ecco insomma l’idea di questo Web 3 (che adesso ho illustrato così in maniera estremamente sommaria per questioni di tempo), sovverte completamente quello che è il modello economico imperante su Internet oggi, ovvero quello della gratuità, quello della pubblicità, quello dell’attenzione, e lo fa diventare invece teoricamente un mondo basato su una vera e propria economia monetaria costante , che pervade qualunque ambito e qualunque nostra attività di Internet, sfruttando a questo scopo, gli automatismi resi possibili dalle criptovalute, soprattutto gli smart contract, ovvero questi contratti intelligenti che entrano in esecuzione in automatico nel momento in cui le condizioni sottoscritte tra le parti sono soddisfatte perché permettono quindi di eliminare la questione della fiducia. Io non devo più stare a contrattare ogni singola volta, a fidarmi della persona con cui sto facendo delle transazioni economiche, perché è tutto regolato automaticamente tramite blockchain. Ecco se veramente si verificherà la transizione verso questo modello, probabilmente all’inizio non sostituirà la rete come la conosciamo oggi, ma magari si affiancherà ad esso e verrà utilizzata soprattutto da nerd e smanettoni. Ora è chiaro che vuol dire che, l’economia che negli ultimi vent’anni ha dominato la rete, sta transitando verso un modello completamente diverso.
Per cui per chi progetta piattaforme e per chi oggi deve iniziare a pensare a quale percorso vuole intraprendere nel mondo digitale, tenere d’occhio questa tendenza diventa estremamente importante. L’altra cosa è più un monito, è quella di far attenzione all’Hype, perché io sto vedendo tantissime aziende, faccio un esempio veramente pratico: Decentraland, questa piattaforma realizzata su Blockchain che permette di fare compravendita di territori, di appezzamenti di terra nel cosiddetto metaverso, che poi in questo caso è la sola piattaforma di Decentraland, e non è manco in realtà virtuale, per poi costruire case, costruire hotel, costruire spazi dove fare eventi, insomma ricreare una sorta di piccola economia, di piccola società in questa piattaforma basata su blockchain. Ora, all’interno di questa piattaforma si sono tuffate tutte le aziende: ha fatto un evento la Heineken, hanno fatto una settimana della moda, i nomi delle aziende sono innumerevoli. Ma è stato solo hype, è stato solo marketing, di concreto dentro non c’era nulla. Dentro Decentraland non ci sta nessuno, fa in media 300.000 utenti al mese: è un numero ridicolo.
Roblox, di cui si parla 1/50 di quanto si parla di Decentraland, fa 50/100 milioni di utenti al mese, però, Decentraland, anche grazie alle criptovalute, è stato bravissimo a riprendersi a fini di marketing, e quindi tutte le aziende ci hanno investito rendendo gli speculatori ricchi e non ottenendo nulla in cambio perché in verità quella di Decentraland è una terra desolata. Quindi prestare molta attenzione a quelle che sono le operazioni di marketing e guardare bene dove si sta investendo , su cosa si sta puntando, quanto c’è di concreto in quello che si sta facendo, quali sono i numeri, quali sono le prospettive e quali sono i competitor. Perché spesso magari le opportunità più straordinarie non le ha ancora colte nessuno, sono sotto il nostro naso, ma ci sfuggono perché siamo troppo impegnati a saltare sul carro dell’apparente vincitore, che poi si rivela una sorta di circo Barnum, pieno di venditori di olio di serpente. Questo è un po’ lo scenario conclusivo.